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02 dic – L’Esodo e le sue ferite: a gennaio il nuovo libro di Bernas

Jan Bernas, giovane giornalista di origine polacca dell'Agenzia Apcom di Roma, da tempo attento studioso delle nostre vicende, esce a gennaio prossimo col suo libro "Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani", per le Edizioni Mursia e con la prefazione di Walter Veltroni (già Sindaco di Roma e profondo conoscitore della comunità giuliano-dalmata della capitale).

Ecco la sinossi del libro, che presentiamo in anteprima.

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Pensate a casa vostra, al vostro quartiere, alla vostra città. Gli odori, i colori, le vie, la gente. In ogni angolo risuonano voci e rumori. È la vostra terra. Ne riconoscete quasi per istinto il respiro.
Dialetti, tradizioni e modi di dire. Feste, canti e luoghi di ritrovo. Luoghi d'amore, che vi dicono chi siete e da dove venite.
Ecco, provate ora a immaginare il silenzio. La vostra città, i suoi vicoli, le sue piazze, le sue chiese senza più rumori, odori, parole, senza più la sua gente. Vuota. Silenziosa. Deserta. Un silenzio irreale che avvolge e ovatta tutto. Il vostro mondo diventa altro. Lentamente si spoglia di voi. E voi di lui. Altri se ne appropriano. Altri prendono il vostro posto. Quelle vie che erano la vostra stessa identità, oggi, rivedendole lasciano nell'animo solo un'innaturale senso di estraneità.

Così un vecchio polesano, in un antico dialetto contaminato ormai da inflessioni romanesche, ha descritto il suo esodo. "Bisogna immaginare – diceva – perché quello che abbiamo provato e sofferto noi 350.000 istriani, fiumani e dalmati nell'abbandonare per sempre la nostra terra e le nostre case, lo si può solo immaginare". Sembra impossibile, oggi, soltanto pensare a una Firenze vuota senza fiorentini, a una Roma silenziosa senza romani o a una Napoli deserta senza napoletani. Sessant'anni fa, questo è accaduto. Ed è accaduto a Capodistria, a Rovigno, a Buie, a Parenzo, a Dignano, a Pola, a Fiume e a Zara. Interi borghi, intere famiglie, un'intera regione svuotate della propria essenza. Come in una lenta ma inesorabile emorragia. Come in un trasloco dell'anima.

Persone che furono costrette a lasciare la propria terra. Altre che scelsero l'incognito e la perenne nostalgia, pur di non doversi staccare anche dalla propria identità. Decisero di restare quel che erano sempre stati, italiani. "Forse – come ha poeticamente detto l'ultimo vescovo di Fiume, monsignor Ugo Camozzo – la più bella espressione d'amore che l'Italia abbia ricevuto durante l'ultima guerra".

Al posto di chi partiva, altri arrivavano. 'Altri' istriani: croati e sloveni che da secoli condividevano insieme agli italiani la stessa terra e la stessa storia. Ma anche tanti serbi, bosniaci, macedoni, kosovari, croati o sloveni dell'interno che alla fine del secondo conflitto mondiale si riversarono in massa ad occupare il vuoto lasciato dagli italiani. Loro sì, davvero 'altri'. Altra cultura, altra storia, altra lingua, abitudini, tradizioni, colori e profumi. Questa 'invasione dell'altro' ha trasformato per sempre l'Istria, Fiume e Zara cambiandone volto, aspetto, identità. E così agli esuli che ormai anziani tornano da stranieri ad assaporare i loro ricordi, resta solo l'illusione più intima di ritrovare gli stessi volti, gli stessi profumi e parole che li avevano accompagnati da giovani.

Gli esuli, come a volte si sente dire, non sono emigranti. I tanti napoletani, veneti, siciliani che per quasi due secoli hanno attraversato l'oceano in cerca di fortuna in America, in Australia o in Argentina, sapevano che Napoli, Venezia, Palermo erano lì ad aspettarli, ad abbracciarli al loro ritorno. Attraversando semplicemente l'Adriatico, gli esuli istriani, fiumani e dalmati hanno detto addio per sempre al loro mondo, nutrendo la nostalgia solo di ricordi sempre più sbiaditi di quel che era ed ora non è più. "Fiume è un'altra città adesso". "Zara è quasi irriconoscibile". "La mia Pola, non esiste più". Gli esuli, non sono emigranti, ma un popolo sradicato dalla propria terra.

Nel visitare le bellissime città che costellano l'Istria, il Quarnero e la Dalmazia, nel camminare per quei vicoli, nell'ammirare quei campanili, quelle piazze, quel mare non si può almeno per un istante non fermarsi a pensare a come dovevano apparire prima della guerra. Quali parole o profumi avremmo sentito? Quali i volti che avremmo incontrato? Non lo sapremo mai. Possiamo solo immaginare. Oggi, nelle case degli esuli, nelle loro città vive altra gente. Pola è diventata Pula, Capodistria Koper, Rovigno Rovinj, Buie Buje, Parenzo Porec, Dignano Vodnjan, Fiume Rijeka e Zara Zadar. L'essenza di quei posti è cambiata. Non solo i nomi. Sono passati poco più di 60 anni, eppure sembrano trascorsi secoli.
Chi oggi da Trieste passa il confine che non c’è più e va a Capodistria, Pirano, Rovigno, Pola e fin giù alla punta estrema dell'Istria, percepisce a pelle un senso di familiarità con questi luoghi. Sembra quasi di conoscerli da sempre, di esserci stati milioni di volte. Un'intimità istintiva che inconsapevole ci rassicura osservando le calli, i campanili veneziani delle chiese, le mura e le piazze della 'città vecia'. Basta però leggere le insegne dei negozi, ascoltare le parole dei passanti, guardarne i lineamenti per ripiombare nella consapevolezza di aver ormai varcato il confine.

Ma in Istria, come recita una nota canzone, non sono solo le pietre a parlare italiano. In ogni città, in ogni piccolo borgo vivono persone che, per scelta o perché costrette dalle circostanze, decisero di restare a casa propria: i 'rimasti'.
Un termine sgradevole per chiamare gli italiani d'Istria, di Fiume o della Dalmazia. Quasi un marchio, che negli anni ha scavato una profonda frattura con gli esuli, suscitando risentimenti e diffidenze reciproche. 'I filo-slavi, i traditori, gli amici di Tito, gli assimilati, i comunisti': questi gli insulti che i 'rimasti' per anni hanno dovuto sopportare.
Oggi, con la caduta del comunismo e lo sfaldamento della Jugoslavia, le due facce dello stesso popolo si sono riavvicinate e i circa 40.000 che vivono tra l'attuale Slovenia e Croazia sono tornati ad essere chiamati semplicemente per quello che sono: italiani.

Di città in città, di casa in casa, entrando in punta di piedi nel loro mondo, si avverte in questi italiani dimenticati un'istintiva felicità nel trovarsi di fronte a un connazionale. "Uno dei nostri", direbbero loro. Dopo anni di silenzio represso e lacrime mai piante, poter raccontare la propria tragedia personale e di popolo assume un senso di liberazione, come un grido di dolore per troppo tempo caduto nel vuoto. E non importa se di fronte c'è uno sconosciuto, le cicatrici non si lavano e piangere non è una vergogna. Con orgoglio e ostinazione, gli italiani d'Istria, Fiume e Dalmazia rivendicano la propria secolare autoctonia, rispetto alle altre minoranze slave accumulatesi nel corso degli ultimi decenni. Oggi, non sono che una goccia in mezzo a un mare slavo. Ridotti a minoranza, gli italiani hanno perso la virilità di popolo, costretti ad assistere impotenti alla snaturalizzazione della loro terra in un tormento quotidiano: "È come se ci fossimo trasferiti, senza mai muoverci, riscoprendoci stranieri a casa nostra".

Questo libro nasce dunque da un viaggio, spirituale e di coscienza ancor prima che di ricostruzione degli eventi. E come in un viaggio, sono le voci non filtrate dei protagonisti a tracciare il percorso narrativo, offrendo a chi legge una panoramica capace di accendere un cono di luce su quanto accadde in quel fazzoletto di terra alla fine dell'ultima guerra. Si vuole così riscoprire una pagina di storia italiana per troppi anni dimenticata o raccontata solo attraverso la faziosità e gli opposti opportunismi della politica. Questo libro vuole andare ben oltre le foibe, diventate nell'immaginario collettivo simbolo di una vicenda assai più complessa. Nell'ascoltare le tante storie riportate, emerge però un denominatore comune: esuli o rimasti, vicini al regime di Mussolini o partigiani comunisti, nella Jugoslavia di Tito bastava essere italiani per venire discriminati e perseguitati.

L'opera si compone come un mosaico. Racconti di esuli e rimasti ordinati secondo la zona o la città di origine, in un ideale intreccio di esperienze personali ma che messe insieme descrivono il dramma comune di un popolo. Sono uomini e donne, spesso di opposta fede politica, ma accomunati dalla stessa sorte e dalla stessa accusa: "Fascisti!".
Tutti i 'rimasti', in quanto italiani, vengono guardati con sospetto. Non sono pochi quelli che conoscono l'inferno dei campi di concentramento titini, raccontato dalle testimonianze di due sopravvissuti a Borovnica e a Goli Otok. Altri, invece, descrivono il quotidiano tormento di chi decise di non abbandonare la propria terra, riscoprendosi giorno dopo giorno minoranza e straniero a casa propria.
Ma anche per gli esuli, nell'Italia del dopoguerra, l'accusa è, paradossalmente, la stessa. Sono malvisti perché considerati 'fascisti in fuga' dal 'paradiso socialista'. Un'intera generazione senza terra viene accolta nei campi profughi, tra indifferenza e diffidenza. Per dare l'idea del clima che trovano in Italia i 'fascisti in fuga', ecco cosa scriveva L'Unità nell'edizione dell'Italia Settentrionale, sabato 30 novembre 1946: "Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall'alito di libertà che precedeva o coincideva con l'avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi".

È la voce di un bambino a raccontare l'assalto degli operai della stazione di Bologna al vagone merci, su cui viaggiava con la famiglia, diretto al campo profughi. Gridano: "Blocchiamo il treno dei fascisti!".

C'è poi la storia della fuga da Fiume di due fratellini, che si ritrovano a vivere soli nel campo profughi di Novara. Uno di loro sarebbe diventato il portabandiera dell'Italia alle Olimpiadi del 1972. Tra chi scappava in cerca della libertà c'è l'odissea di una famiglia ebrea di Fiume, salvata dal coraggio di una famiglia di Portogruaro, oggi riconosciuta fra i "giusti tra le Nazioni" in Israele. O ancora, la testimonianza di una donna, a cui i titini hanno infoibato sette familiari. Sopravvissuta all'affondamento della nave Campanella, è rimasta nelle carceri jugoslave fino al 1949.

Ultima tessera del mosaico, forse la meno conosciuta, è rappresentata dagli italiani che scelgono di restare sposando il progetto socialista della Jugoslavia di Tito. A loro si aggiungono quelli del 'contro-esodo', partiti appositamente dall'Italia per costruire il Comunismo. Un'odissea umana prima ancora che politica, raccontata da due partigiani, un fiumano e un monfalconese, e finita con la fuga e il disincanto per gli ideali traditi.

Questo non è e non vuole essere un libro di storia, semmai un insieme di testimonianze capaci di ricostruire nella loro complessità i fatti, le sofferenze e le opposte ragioni che portarono un popolo con lingua, usi e tradizioni comuni a dividersi. Un popolo prima abbandonato e poi dimenticato da un'Italia matrigna, che dopo oltre sessanta anni ancora fa fatica a riconoscere dignità e onore a migliaia di suoi figli, sacrificati per lavare gli errori e gli orrori di una guerra sciagurata.
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Il volume sarà in libreria da gennaio. Per contattare l'autore scrivere a Jan.Bernas@apcom.it.

 

 

 

Jan Bernas

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