Il 2 agosto 1882, alle nove di sera, lungo la contrada del Corso, sfilano i veterani triestini dell’esercito austro-ungarico: banda musicale in testa, vanno in piazza Grande a rendere omaggio all’arciduca Carlo Federico da poco giunto in città. È compreso tra due ali di luminarie che rischiarano la penombra dei lampioni a gas. Poi, all’altezza di via San Spiridione un lampo ed uno scoppio secco. Un ordigno, anzi una micidiale bomba Orsini, esplode tra l’ultima schiera della banda musicale e la prima fila del corteo. Quindici feriti, alcuni gravi, ed un morto: Angelo Stocchi, di quindici anni, che se stava sull’angolo opposto della via, colpito da una scheggia. Quella bomba schiantò pure illusioni e certezze di una Trieste moderna e protesa al nuovo secolo. E il nuovo destino sarebbe stato invece scontro politico e nazionale.
Quei frammenti sono ancora oggi conservati all’Archivio di Stato di Trieste, tra i corpi di reato della Imperial regia Direzione di polizia e la scheggia mortale porta un etichetta con il nome e il cognome di quell’innocente. Non furono mai identificati con assoluta certezza gli ispiratori e gli autori materiali dell’attentato ma tre mesi più tardi la corte marziale imputò Guglielmo Oberdan quale unico responsabile, sulla sola comparazione dei resti della bomba con quelle trovate in suo possesso al momento dell’arresto. Una versione accreditata anche negli ambienti irredentisti, forse per coprire altre persone. Nel 1882 cadeva esatto il mezzo millennio di dedizione di Trieste alla Casa d’Austria e importanti iniziative erano state preparate per festeggiare la ricorrenza, in attesa di una prossima visita dell’imperatore. Doveva essere la vetrina di una città che si era trasformata in pochi decenni e stava assumendo i connotati di una piccola metropoli, a cui tutti volevano partecipare. Subito dopo l’attentato la polizia condusse immediate indagini: escluso il lancio dal marciapiede, la bomba, risultò, era stata gettata da una finestra del primo piano del numero 9 della contrada del Corso, un edificio che oggi non esiste più, e dal cui portone era stato visto uscire subito dopo lo scoppio un giovane, alto, con barba rossiccia curata, cappello sulle ventitré. Era stato fermato tale Leopoldo Contento, ma le indagini avevano raccolto altri elementi, quali la presenza a Trieste proprio di Guglielmo Oberdan che aveva preso una stanza in una locanda e poi un’altra da un affittacamere, lasciando tracce troppo evidenti della sua presenza in città, lui ricercato per diserzione. Un deliberato tentativo di depistaggio? Nel frattempo era stato ricostruito il tragitto dell’attentatore e i sospetti si erano addensati su Contento, che per altro aveva un’incredibile somiglianza con Oberdan.
Ma pochi giorni dopo nella stazione di Lubiana era stata fermata una ragazza in abiti maschili: il suo comportamento aveva destato il sospetto di un poliziotto proveniente da Trieste. Fermata e perquisita, le trovarono in tasca un coltello da cucina. Si giustificò dicendo di averlo per difendersi da uno spasimante dal quale era fuggita. Era una cameriera in servizio a Trieste, proprio nella famiglia occupante quell’appartamento al centro delle indagini, e il coltello faceva parte del corredo di cucina. Tuttavia la polizia abbandonò quella pista, sottovalutando la posizione del Contento, unico arrestato fini a quel momento. Ora il nuovo indiziato era Guglielmo Oberdan. Quindici giorni più tardi, su segnalazione della polizia italiana, la gendarmeria austriaca sequestrò sul piroscafo “Milano” del Lloyd austriaco, proveniente da Venezia, una valigia con opuscoli sovversivi, bombe Orsini e petardi. Anche la valigia esiste ancora, con la serratura scardinata.
Ci si attendeva qualcosa di grave, largamente anticipato da alcuni volantini del partito d’azione che minacciava di passare alle vie di fatto contro gli avversari politici sloveni di Trieste. Volantini e valigia furono ricondotti, otto mesi più tardi, a tre irredentisti: Edoardo Veneziani, Giuseppe Leone Levi ed Enrico Predonzani, già noti alle autorità e ricercati per associazione eversiva con finalità secessionista le cui posizioni erano state associate a quelle di Giuseppe Manzani e Michele Grego, proprio in seguito alle indagini sull’attentato del 2 agosto. Ma quel filone d’inchiesta non approdò a nulla di concreto in quanto Guglielmo Oberdan era già finito sul patibolo il 20 dicembre e Leopoldo Contento deceduto in carcere qualche giorno dopo l’esecuzione. Due bocche chiuse per sempre. Chiuso il caso, iniziava il mito. Senza senza ulteriori approfondimenti, se non per alcuni aspetti meno noti: nel 1890 sparirono dal mal vigilato archivio del tribunale di Trieste proprio i fascicoli dell’indagine sulla bomba del 2 agosto e quelli del primo interrogatorio ad Oberdan, in cui il magistrato istruttore aveva cercato una correlazione tra l’arrestato e l’attentato, per prendere tempo, per capire l’effettivo ruolo di Oberdan all’interno della trama eversiva, per evitare che finisse nelle mani dei giudici militari che avevano già deciso la sorte dell’imputato. Quei documenti furono trasferiti a Udine con una valigia a doppiofondo, costruita segretamente nella falegnameria del carcere dei Gesuiti, e lì nascosti fino alla prima guerra mondiale, quando Francesco Salata iniziò a scrivere la biografia di Oberdan.
Dopo la guerra tornarono a Trieste ma non si può escludere che qualcosa sia andato “perduto” per strada. Proprio questo furto, probabilmente su commissione, è uno degli aspetti meno noti e meno indagati dagli storici locali: gli atti dell’inchiesta giudiziaria, conservati presso l’Archivio di Stato di Trieste, mantengono una inalterata freschezza ed offrono ulteriori ed inediti spunti per indagare sulle organizzazioni fiancheggiatrici dell’irredentismo. C’è ancora un punto inquietante: nel diario delle sorelle Ongaro, figlie di Luigi, mazziniano e protagonista nel 1864 dei moti di Navarons, c’è scritto che la bomba del 2 agosto fu scagliata da Adelia Delfino, sorella di Domenico Giovanni Battista Delfino, compagno di classe di Oberdan ed affermato tenore dell’epoca. Solo Bianca Maria Favetta ha citato questo importante documento, in un quaderno dei Civici musei di storia ed arte di Trieste, che modifica non di poco la versione accreditata, anche negli ambienti irredentisti, a partire da quella offerta da Giusto Muratti che evidentemente era comoda per tutti. Però quella sera, in quell’appartamento, c’erano Guglielmo Oberdan, Adelia Delfino e forse Leopoldo Contento oltre che la cameriera poi fermata a Lubiana: fu una drammatica esitazione, dopo aver innescato l’ordigno, da parte di Oberdan o di Contento, oppure un gesto deliberato da parte della giovane donna? E tutti gli atteggiamenti di Oberdan troppo palesi furono per coprire l’azione di un piccolo gruppo settario oppure il gesto disperato di una ragazza che probabilmente provava qualcosa per quel giovane matematico, taciturno, così poco incline alle amicizie, e ottenebrato da logiche autodistruttive?
Un mese e mezzo più tardi, quel giovane sarà arrestato nei pressi di Ronchi, grazie alla soffiata dell’avvocato Giuseppe Fabris-Basilisco, infiltrato su intesa italo-austriaca negli ambienti irredentisti, e l’attenzione si sposterà sulle dichiarate intenzioni regicide di Oberdan, consegnando deliberatamente la sua figura al mito irredentista italiano. E di quell’attentato non se ne parlerà più. Restano però i documenti, talvolta poco studiati o sottovalutati nella presunzione che tutto sia già stato scritto, ma non detto fino in fondo.
Roberto Spazzali su “Il Piccolo” del 2 agosto 2012