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03 lug – Don Bonifacio: ”Avvenire” e il Santo delle Foibe

Da "Avvenire" del 24 marzo 2004

di Roberto Beretta

 

L' 11 settembre avrà forse il suo santo. Un martire. Un prete istriano scomparso l’11 settembre 1946, gettato per odio ideologico in qualche foiba: e il baratro – a ben guardare – non è poi tanto diverso da quello delle Twin Towers. Don Francesco Bonifacio era un parroco normale. Uno di quelli nati per farsi prete, si direbbe: docile, pio e chierichetto; infatti in seminario lo chiamano «el santin». Anche da sacerdote, cappellano a Villa Gardossi presso Buie in Istria, don Bonifacio non fa nulla per distinguersi se non in carità e zelo; nei tempi tormentati della guerra, che dopo il 1943 vedono susseguirsi l’occupazione slava a quella tedesca, si interessa solo dell’apostolato, cercando di dribblare come può le continue difficoltà frapposte alla Chiesa dai comunisti di Tito. Addirittura, per non cadere nelle accuse di far propaganda politica, giunge a fare catechismo con le porte della chiesa spalancate, perché chiunque possa sentire di che cosa parla. Non basta, come non sono sufficienti i meriti acquistati allorché – durante l’occupazione nazifascista – don Francesco interviene più volte per impedire rappresaglie sanguinose, seppellire le vittime (a qualunque fazione appartengano), nascondere i ricercati. Proprio dopo la «liberazione» slava, e fino al 1948, la guerra nei territori italiani oltre Trieste si trasforma in una vera persecuzione anti-religiosa; dunque il cappellano di Villa Garbossi ne diventa bersaglio proprio perché non fa politica ma si sforza di essere un santo prete, attirando così molti giovani. Prima gli tagliano le corde delle campane. Poi lo circondano di delatori. Quindi intimidiscono i suoi fedeli. Infine, direttamente o no, lo minacciano e lo diffidano dal girare per la parrocchia. «Mi pare proprio impossibile di venir derubato da coloro che si dicono i nostri liberatori», scrive il prete nel suo diario. E intanto comincia a pensare alla possibilità del martirio: «Bisogna essere prudenti perché quelli possono essere nascosti anche fra i cespugli ai lati della strada – confida a un confratello nell’estate 1946 –.Devo stare molto attento perché mi stanno spiando». Il suo realismo coraggioso, pochi giorni prima della morte, giunge al punto di consigliare a una fedele di farsi un tatuaggio sul braccio in modo da poter essere riconosciuta in caso di morte, «perché adesso i drusi tagliano le teste». Pur essendo solo una scrupolosa pedina della fede, infatti, don Bonifacio intuisce con l’esperienza ciò che l’indomito suo vescovo – quello di Trieste monsignor Antonio Santin, che sarà aggredito e ferito a Capodistria nel giugno 1946 – denuncia a forti lettere proprio in quell’anno: ormai in Istria e Dalmazia «parlare di libertà religiosa è offendere la verità» e si vive sotto un’«intensa propaganda antireligiosa» nutrita di «calunnie suggerite dall’odio contro la Chiesa». Il modello di Tito è, per il momento, ancora la Russia di Stalin; ma il dittatore ha la scaltrezza di procurarsi anche l’appoggio degli Alleati contro l’Italia che – dopo tutto – ha perso la guerra. È proprio monsignor Santin a confermare don Bonifacio nel proposito di non fuggire, di rimanere sul posto a ogni costo. Ma l’Ozna, la polizia segreta di Tito, ha già deliberato il suo arresto insieme a quello di altri parroci. La sera dell’11 settembre il prete viene avvicinato per strada da alcune «guardie popolari», che lo portano via. Malgrado le immediate ricerche dei familiari (il fratello verrà incarcerato per qualche giorno sotto l’accusa di «falso», e di lì a un anno tutta la famiglia prende la strada dell’esodo come moltissimi istriani), di lui non si saprà più nulla; in paese – anche se i militi che l’hanno preso sono ben noti – nessuno parla. «Ancora negli anni Settanta – testimonia Sergio Galimberti, che nel 1998 ha curato una biografia del sacerdote per la chiusura diocesana del processo di canonizzazione – è pericoloso occuparsi del caso Bonifacio». Molto più tardi sarà un regista teatrale ad avere informazioni parzialmente attendibili sulla fine del cappellano, ottenendole a pagamento da una delle guardie popolari che l’avevano arrestato sotto l’accusa di «fascismo» e «nazionalismo italiano»: don Francesco sarebbe stato caricato su un’auto, picchiato, spogliato, colpito con un sasso sul volto e finito con due coltellate alla gola; il cadavere sarebbe poi stato gettato in una foiba vicina. E così sarà forse proprio don Bonifacio il primo dei molti «santi delle foibe».

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