Uno degli obiettivi della vita ecclesiastica di padre Flaminio Rocchi fu certamente la ricerca dell'onore degli altari per i sacerdoti e i religiosi uccisi dai partigiani jugoslavi al termine della seconda guerra mondiale. Oggi si realizza questo sogno e quindi diamo spazio a come padre Flaminio, il Frate degli Esuli, aveva parlato di don Bonifacio nel suo libro "L'Esodo dei 350mila giuliani fiumani e dalmati".
Don FRANCESCO BONIFACIO da Pirano, parroco di Villa Gardossi, 34 anni. La sera dell’11 settembre 1946 è stato ucciso dall’OZNA (Polizia Segreta jugoslava) e la salma è stata gettata in una foiba di Grisignana (testimonianza di un fratello). Il vescovo di Trieste ha introdotto la causa di beatificazione ed ha posto nel Santuario di Monte Grisa una lapide di bronzo con la scritta: “Trucidato in odio a Dio e al suo sacerdozio santo”.
Il 16 settembre 1996 Mons.Giulio Einaudi, nunzio Apostolico di Croazia, ha presieduto a Villa Gardossi una solenne cerimonia per ricordare il martirio di Don Bonifacio. Ha detto: “è uno dei martiri del XX secolo, vittima del comunismo”. Mons. Anton Bogetic, attuale vescovo di Pola, ha ricordato che Don Francesco era andato nel bosco per cercare di aiutare un partigiano mortalmente ferito. È stata scoperta una lapide di bronzo. Erano presenti anche Bonifacio Giovanni e Mario, fratelli del martire.
A proposito delle persecuzioni religiose nelle nostre terre, di cui don Bonifacio fu uno dei simboli, ecco l'introduzione di padre Rocchi al lungo elenco dei martiri, ognuno con la sua storia ma tutti con la medesima fine.
Secondo la tradizione, sarebbe stato lo stesso S. Marco ad inviare in Istria S. Ermagora il quale predicò a Parenzo, a Pola, a Pedena. Sorsero le prime diocesi a Trieste, Capodistria, Cittanova e a Pedena. Basiliche e chiese costellarono tutta l’Istria, con molti santi locali come S. Elio, S. Giacinto, S. Ilario, S. Eleuterio, S. Giuliano, S. Demetrio, S. Proietto, S. Massiminiano che nel 546 costruì presso Pola la basilica di S. Maria Formosa e poi diventò arcivescovo di Ravenna.
Lo scontro con il comunismo appare sconcertante sul terreno religioso. Dopo l’armistizio i quadri dell’amministrazione civile e militare si erano dissolti nella disgregazione politica e morale. Sono rimasti sul posto i vescovi e i sacerdoti.
“In tutto il litorale adriatico gli italiani erano dei cattolici profondamente credenti, molto religiosi. Ciò risaliva agli albori del Cristianesimo, come risulta nelle splendide chiese e cattedrali romaniche, bizantine e di origine veneziana, talora tristemente abbandonate dagli slavi o addirittura trasformate in autorimesse” (T. Veiter).
L’art. 150 della Costituzione jugoslava dice: “È garantita la libertà ai cittadini di esprimere la loro appartenenza alla loro nazione o nazionalità e di coltivare la loro eredità culturale, come pure la libertà di usare la madrelingua e il loro alfabeto. Ogni atto che inciti all’odio e all’intolleranza nazionale, razziale e religiosa è incostituzionale”. Ma in una circolare del 10 luglio 1944 il consiglio del partito constata che, in tutta la massa contadina è subentrata la paura per la salvaguardia della religione. Per questo, aggiunge la successiva circolare del 19 luglio: “bisogna agire con prudenza e fare il possibile per avere l’adesione anche di qualche prete”. “Vita Nuova”, settimanale della diocesi di Trieste e Capodistria, il 15 giugno 1946 scrive: “Il veleno viene inoculato lentamente ed a piccole dosi. Contro il clero bisogna ingaggiare una lotta senza quartiere, non però aperta, ma subdola. Creare il distacco fra parroco e parrocchiani”. Impedisce cioè che la chiesa diventi un punto di riferimento per una popolazione che si sente abbandonata da tutti e minacciata.
“Ai preti è permesso occuparsi dei loro riti religiosi, ma non di diffondere il fanatismo religioso”. (Tito, «Borba» 15 settembre 1951). L’austriaco prof. T. Veiter scrive che il diritto religioso era “in netto contrasto con la teoria e la pratica degli anni della guerra e dei primi anni postbellici. La persecuzione religiosa di quel periodo è del resto documentata dalla letteratura jugoslava specializzata. In primo luogo si ebbero atti di forza contro i vescovi e i sacerdoti italiani, talora con gravi oltraggi”.
Ma l’ateismo persecutorio di Tito trova davanti a se un clero coraggioso, pronto ad affrontare anche la morte, e quattro vescovi nel cui atteggiamento si rispecchia tutta la sofferenza della chiesa istriana e la loro difesa in favore della popolazione.