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05 apr – Franco Luxardo: intervista a 360 gradi

di Alberto Beggiollni su Il Gazzettino del 3 aprile 2010

Dalla Zara occupata dai "partigiani di Tito", dopo l’abbandono delle truppe italiane e tedesche, nel ’44, costretta a trovare riparo in Italia, la sua famiglia arrivò alla fine a Torreglia.

Come mai proprio Torreglia, Franco Luxardo?
«Fu una scelta logistica. Mio padre, che di tutti i fratelli era l’unico superstite dalla seconda guerra mondiale, cercava un posto dove si potessero piantare le marasche. Allora abitavamo a Venezia, sfollati al Lido. Per la nostra attività ci vennero indicati vari siti: i colli veronesi, quelli a nord di Udine, e i colli Euganei. In realtà mio padre continuava a sperare di ritrovare i fratelli scomparsi, e quindi voleva restare vicino a Zara, vicino ma non troppo…».

E quindi?
«Quindi no al Friuli, subito al di qua del confine, ma no anche al veronese, troppo distante. E sì invece agli Euganei».

Fu trovato anche qui un habitat favorevole alla coltura di marasche?
«Il professore Morettini dell’università di Firenze, facoltà di Agricoltura, nell’immediato anteguerra aveva scritto un saggio sulle marasce dalmate. E da una viaggio in Dalmazia era rientrato in Italia portandosi alcune piantine».

La varietà era autoctona di quelle regioni?
«Sì, il prunus cerasus, una ciliegia acida, differente da quelle dolci che si trovano normalmente. Cresceva incolta, tranne le poche piantagioni che avevamo creato noi negli anni Trenta, a cavallo tra il confine».

E così?
«Così mio padre andò a Firenze, e convinse il professore a venire poi qui ad esaminare terreni e clima. E dette il suo parere favorevole.

Tutto bene?
«Beh, si fa per dire. A quel tempo, siamo nel ’47, il paese finiva alla piazza, giusto dove arrivava il tram da Padova: subito dopo non c’era più nulla, nè strade, nè acqua, nè elettricità. C’era solo la trattoria Ballotta, e tante viuzze sterrate».

Ricominciaste tutto daccapo?
«Abbiamo cominciato su una superficie nostra, circa tre ettari. Abbiamo piantato le marasche dalmate qui da noi, e poi le abbiamo distribuite lentamente, attraverso Coldiretti e parroci, a coltivatori indipendenti, sparsi sui Colli».

Parliamo di tanti agricoltori?
«A dire il vero erano anni in cui la gente tendeva a fuggire dai colli, verso i paesi termali o la città. La coltura delle marasche fu uno degli stimoli a restare».

Nessun altro incentivo?
«L’ispettorato all’agricoltura dava anche contributi di scasso, ma di colture da queste parti ce n’erano ben poche: poco grano, poche piante da frutta e molti vigneti abbandonati durante la guerra».

Perchè sui Colli Euganei, subito dopo la guerra…
«C’erano disertori, ex partigiani, sbandati. Mio padre, che dormiva in azienda, s’era procurato una pistola…».

Oggi su che superficie produttiva potete contare?
«Attualmente calcoliamo le piante: dalle 20 alle 22 piante tra gli Euganei e i Berici, nella zona di Noventa Vicentina, dove trovammo fin da subito coltivatori interessati. La produzione è di alcune migliaia di quintali all’anno».

Tra voi e i privati, come funziona?
«Loro si impegnano a darci tutta la produzione, noi garantiamo la scelta delle piante e il prezzo di mercato».

I piccoli produttori hanno eliminato il rischio d’impresa?
«Praticamente sì: oggi non ce n’è più bisogno, ma un tempo fornivamo anche l’assistenza tecnica, fitosanitaria, anche se poco necessaria, vista la resistenza delle piante».

Il ciclo com’è strutturato?
«La fioritura avviene verso la prima quindicina di aprile, il raccolto nella prima decade di luglio. Qui arrivano i frutti, vengono separati da foglie, rami, noccioli e buona parte delle bucce. La polpa viene messa a fermentare in tini di larice. Una volta raggiunta una gradazione alcolica di 6-8 gradi, il processo viene fermato aggiungendo un velo di alcol».

E si arriva così ai vostri pezzi forti.
«Questo vino di marasche viene fortificato: la gradazione sale a 14 gradi. Questo è il polmone dal quale attingiamo per avviare l’infuso alla distillazione per fare il maraschino, che viene stabilizzato a 70 gradi: è uno dei pochi prodotti dolci al mondo che hanno come base un distillato nobile, dal profumo intenso. Il maraschino va poi invecchiato a lungo in tini di larice o frassino».

Oppure?
"Il prodotto può essere avviato ad una ulteriore infusione per il "Sangue morlacco", che è il nostro liquore di marasca, uno cherry brandy, derivato da marasche e non da ciliegie dolci, come lo cherry inglese».

Sangue morlacco, cioè di origine dalmata: un nome incredibile.
«E un po’ vampiresco: fu scelto addirittura da Gabriele d’Annunzio per il nostro ratafià. Era la bevanda fiumana per eccellenza» .

La bottiglia del Maraschino restò uguale dall’inizio ad oggi?
«Praticamente sì. L’impagliatura nasceva dall’esigenza di proteggere le bottiglie di vetro durante il trasporto, molto spesso nelle stive delle navi, che all’epoca erano velieri assai instabili. Pensi che si rompeva almeno il 25 per cento del carico…».

Quindi la paglia.
«Era un’impagliatura che procuravamo in Toscana, dove viveva la tradizione dei fiaschi. Poi da Comacchio, dove si lavorava una certa erba palustre».

Ma oggi?
«Quella paglia non esiste più: non ci sono più nè canne nè manodopera. Adesso la facciamo arrivare dalla Cina. Ma abbiamo mantenuto il packaging dell’origine».

Cos’altro producete ancora?
«Confetture, prodotti per l’industria dolciaria, distillati per la pasticceria, limoncello, sambuca, amaretto. Va citata l’Amarascata, una confettura extra di marasche, al 170% di frutta: ciò significa che per ottenere 100 grammi di prodotto finito vengono utilizzati ben 170 grammi di frutta fresca».

I vostri mercati?
«Vendiamo in Italia ed esportiamo in tutto il mondo. Certo, per i liquori dolci il mercato non è gigantesco, al contrario di quelli secchi, come la vodka, che spopola, soprattutto all’estero. Ma ci sono Paesi dove la richiesta dei dolci tiene, come la Germania. Anche negli Stati Uniti abbiamo quote interessanti: lì i cocktail sono molto amati, e i nostri prodotti ne sono spesso la base. Ma pensi che esportiamo perfino in Africa, in Australia, in Oceania. Ci manca l’Antartide…».

Immagino che il vostro cherry vada anche in Inghilterra?
«No. Loro hanno accise che aumentano con la gradazione. Quindi hanno preferito prodotti di origine olandesi, sui 20 gradi, ben meno dei nostri 30 e passa. In Inghilterra però siamo leader per la sambuca».

Ma la quota-mercato dei liquori "dolci" è importante?
«Guardi, in Italia si consumano circa 100 milioni di litri alcolici all’anno: di questi sono 19 milioni di grappa, 6 milioni di whiskey, 17 milioni di limoncello, 6 milioni di sambuca, 2,5 milioni di altri "dolci", e altre quote frammentate. I "dolci", insomma, fanno quasi il 30 per cento, non poco. E il maraschino in Italia vende 250 mila bottiglie».

Tante?
«Insomma. Del resto il nostro è un mercato di nicchia, per conoscitori. In realtà oggi l’alcol è pesantemente attaccato: i tassi massimi consentiti per chi guida, la lotta agli "sballi" e via dicendo. Oggi c’è il fenomeno spritz, tutto il resto…».

I numeri dell’azienda?
«Abbiamo 42 dipendenti, un centinaio di agenti in Italia, sessanta Paesi coperti. Il fatturato è circa 16 milioni di euro, escluse le accise».

Il tutto grazie alla ricetta originale del Maraschino Luxardo. Ce la può rivelare?
«Ovviamente no. È il nostro segreto di famiglia».

L'azienda data 1821 Nel padovano dal 1947

L'azienda fu fondata da Girolamo Luxardo nel 1821 a Zara, sulle coste della Dalmazia. La Dalmazia era stata per oltre sette secoli parte integrante della Serenissima Repubblica di Venezia. Con la caduta della Serenissima nel 1797 e con la presa di potere dell'Austria, Zara fu elevata a capitale del Regno di Dalmazia. La moglie di Girolamo, Maria Canevari, si dedicò, come era uso del tempo, a produrre liquori in casa e diede la massima attenzione ad un liquore che nella cittadina dalmata era conosciuto sin dal Medioevo, prodotto nei conventi coi nome di "Rosolio Maraschino". Il liquore prodotto fu di cosi elevate qualità che richiamò l'attenzione di amici e di estimatori. Girolamo sfruttò tale iniziativa familiare fondando nel 1821 una fabbrica destinata alla produzione del Maraschino. Dopo 8 anni di studi e di perfezionamenti nel 1829 Girolamo ottenne un privilegio da parte dell'Imperatore d'Austria. Questo privilegio riservava all'inventore la produzione esclusiva di tale tipo di liquore per 15 anni. Ancora oggi la ditta si onora di portare nella sua ragione sociale la denominazione di "Privilegiata fabbrica maraschino excelsior".

Nel 1913, a seguito dì un'accorta politica economica di Michelangelo Luxardo, fu possibile costruire un modernissimo stabilimento, uno dei più grandi dell'impero Austro-Ungarico. Ancora oggi chi si reca net porto di Zara, noterà la mole del palazzo che troneggia sul lungomare, una volta destinato ad abitazione ed uffici della famiglia Luxardo.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale, nel 1940, comportò anzitutto notevoli restrizioni all'attività industriale e, nel novembre 1943, la quasi totale distruzione dello stabilimento per pesanti bombardamenti anglo-americani. Successivamente alla ritirata delie truppe italiane e tedesche dalla Dalmazia (1944), ebbe luogo l'occupazione da parte dei partigiani comunisti di Tito. Gli abitanti della città furono obbligati a partire esuli verso la penisola, ma molti vennero uccisi: fra essi Pietro Luxardo e il fratello Nicolò con la moglie, annegati nel mare di Zara. Distrutto lo stabilimento, dispersa la famiglia, sembrava che – dopo oltre un secolo – l'attività della Luxardo fosse destinata a cessare.

L'unico dei fratelli superstiti della quarta generazione fu Giorgio Luxardo: egli infatti ebbe il coraggio di ricominciare l'antica attività e nel 1947, assieme al giovane Nicolò III, della quinta generazione, costruiva lo stabilimento di Torreglia, iniziando cosi un nuovo capitolo della storia Luxardo. Oggi é attiva la sesta generazione.

LA COMUNITÀ DEGLI ESULI

Il sindaco del "libero Comune di Zara in esilio"

Girolamo Luxardo era di Santa Margherita Ligure. Si occupava del commercio di corallo, un materiale che all'epoca arrivava dalla Sardegna. Quando il corallo sardo iniziò a scarseggiare, si trasferì in Dalmazia, alla fine delle guerre napoleoniche: quei fondali promettevano bene. L'insediamento dei Luxardo a Zara iniziò per questo motivo, anche se ben presto fu affascinato dal mondo dei rosoli e dei distillati. Franco Luxardo è oggi il "sindaco" del "libero Comune di Zara in esilio". È un'amministrazione virtuale che esiste dal 1960, ha riunito gli esuli zaratini, con una forma piramidale, sindaco, giunta, consiglio e assemblea, e elezioni regolari ogni quattro anni. Il suo predecessore è stato Ottavio Missoni. «L'amministrazione – dice Luxardo – ha tenuto insieme la comunità, che all'epoca contava 25 mila esuli: nel '48, dopo il trattato di pace, chi veniva via doveva abbandonare ogni suo bene. Vennero via quasi tutti: Zara rimase davvero svuotata, così come la nostra vecchia, grande fabbrica. Tentarono successivamente di far ripartire un'azienda dal nome "Maraska", ma durò ben poco. L'edificio oggi è completamente vuoto».

Il "libero Comune" conta oggi circa tremila iscritti, ognuno dei quali rappresenta una famiglia. Viene stampato anche un giornale, "Il dalmata" (www.dalmaziaeu.it/IlDalmata.aspx).

CHI E'

Franco Luxardo è classe '36. È il figlio di Giorgio, l'unico Luxardo della quarta generazione che si salvò dopo il ritiro delle truppe italiane e tedesche dalla Dalmazia, la successiva occupazione da parte dei miliziani di Tito, e il conseguente eccidio degli italiani rimasti ancora in quelle terre. Fu Giorgio a ricominciare l'attività della famiglia.

Franco oggi è direttore commerciale export. Pietro Luxardo è presidente e direttore commerciale Italia. In azienda oggi lavorano anche Guido (produzione), Matteo (marketing export), Filippo (marketing Italia) e Giorgio (direzione acquisti e EDP). Da Girolamo, il fondatore, questa è la sesta generazione Luxardo, ma già una settima è all'orizzonte.

 

 

 

(Franco Luxardo in occasione del Premio Internazionale del Giorno del Ricordo organizzato dall'ANVGD)

 

 

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