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05gen12 – L’articolo ”incriminato” de ”Il Messaggero”

Ecco il testo completo dell’articolo apparso il 3 gennaio sul quotidiano di Roma “Il Messaggero” (courtesy Gianclaudio De Angelini) e che ha suscitato polemiche per come è stato descritto il Quartiere Giuliano-Dalmata della Capitale.

 

Dentro il Quartiere Giuliano-Dalmata

Il villaggio operaio ora è residenziale

Arrampicato su una collina: è la riproduzione di una piccola Venezia Giulia

 

di MARIDA LOMBARDO PIJOLA

 

Ci sono alcuni sfregi alla me­moria che feriscono Roberta, se ripensa all’epica del quartie­re Giuliano Dalmata, alla fuga rocambolesca di suo nonno per salvarsi dalle foibe, al dolo­re dell’esilio, alla fatica dei suoi nel ricostruire a un pezzo della patria a Roma, assieme ad altri 2.500 istriani e dalmati in fuga da Tito. Ma c’è una cosa che la ferisce più di ogni altra. E’ quando qualcuno del quartiere chiede: ma questo signor Giuliano Dalmata chi era? «Che vuoi rispondere? E’ ignoranza».

 

Invece Roberta Fidanzia, 38 anni, da anni si scatena come una Indiana Jones della memoria nell’esplorazione di quel piccolo mondo segnato da grandi dolori. Divulga ogni leggenda delia diaspora dalla quale ha preso vita il suo quar­tiere, assai prima che ad impos­sessarsene arrivassero altre e più eterogenee umanità: ì «nuovi», li definiscono i «vec­chi», anche se qui affluiscono da più di quarant’anni. Dico­no «i nuovi» per non dire i coloni, i bar­bari, i Proci, gli invasori o altro così, an­che se quelli rappresenta­no ormai il 90 per cento dei 23.000 che vi­vono qui, co­sì da poter di­re che i giulia­no   dalmati dell’omoni­mo quartiere, salvo una esigua minoranza, sono di Roma e delle sue multi­formi identità. Un microco­smo nella città multietnica, sebbene l’integrazione tra italiani diversi sia inciampata su qualcosa di impreciso. Rober­ta, che lavora alla Sapienza, e di questo suo voler essere cu­stode della memoria ha fatto una ragione di vita o poco meno, dice che è colpa di que­gli altri: «Guardi qua, guardi là: un museo a cielo aperto, lapidi, cippi, mosaici, vetrate, targhe, le vie e la scuola dedica­te ai personaggi della nostra storia, la chiesa a forma di arca, metafora del Toscana, che trasportava i profughi. Ma pochi si chiedono quale sia il significato di questi simboli. Eppure tutto parla di dolore, di nostalgia, di una comunità che qui ha trovato la forza di ricostruire».

 

Ricostruire la propria terra attorno agli alloggi che aveva­no ospitato gli operai chiamati a edificare quello che sarebbe diventato l’Eur: padiglioni, successivamente trasformati in case. Il Giuliano Dalmata nacque così, nel ‘ 47. In questo minuscolo quartiere a ridosso della Laurentina, inaugurato da Andreotti, visitato da due papi e da due capi di Stato, tutto è ancora intatto. «Ma nulla è più com’era», sospira Roberta. E quasi tutti ignora­no il fatto che questa insolita periferia, così linda, limpida e aggraziata, non sia che la ripro­duzione in miniatura di un pezzo di Venezia Giulia: un bonsai di metropoli, arrampi­cato su una piccola collina, aria fresca, ordine, tranquilli­tà, silenzio, piccole palazzine dagli intonaci arancione, giar­dini alberi fiori, silenzio irrea­le. «Una proseguimento dell’Eur in un’oasi di pace», s’inor­goglisce Giorgio Marsan, 51 anni, comitato di quartiere Gentes.

 

E chissà quanto c’è dello spirito ferrigno istriano, nella resistenza grazie alla quale il quartiere ha vinto tante batta­glie. «Abbiamo fermato la co­struzione di una strada a quat­tro corsie, e della parte finale della corsia preferenziale per un filobus, strutture che avreb­bero fatto strage di verde e di tranquillità». Adesso lottano contro lo spaccio notturno nel­la piazzetta, («ancora aspettia­mo una telecamera che ci han­no promesso da due anni»); contro l’occupazione abusiva di un palazzo Cotral, («120 famiglie in condizioni disuma­ne, e tengono pure bombole a gas sotto il sole sui balconi»); contro il progetto di collocare uffici nel palazzo del vecchio orfanotrofio per bambine coi genitori uccisi dai titilli, («ades­so sono vecchie, e per coerenza bisognerebbe fame una resi­denza per anziani»). Lottano, infine, contro l’Ama, che puli­sce solo le strade principali, «e per il resto c’è gente che viene giù con le ramazze».

 

«Il fatto è che i nuovi spor­cano ciò che prima era un salotto», si dispera Lidia Jannuzzi, 66 anni. «E poi si infasti­discono se parliamo in dialet­to, se raccontiamo la nostra storia, se li rimproveriamo quando lasciano che i loro bim­bi si arrampichino sui nostri monumenti, rovinandoli. I nuovi hanno imbarbarito e di­sgregato la comunità».Gli esu­li ormai si rivedono quasi solo ai funerali, e per il resto stanno acquattati nelle loro case a struggersi di nostalgia, guardin­ghi e solitari come esemplari di una specie in estinzione re­spinta dal suo stesso ambiente, senza capire se siano stati loro a emarginare gli altri, oppure viceversa. Ada Viora, Giovan­na Vallone e Loredana Dommaruma stanno a chiacchiera­re in piazza. «Sì, lo sappiamo che ci sono quelli di origi­ne…come si chiama», «qualcu­no viene a messa la domenica, mi pare, no?», «credono di essere chissà che cosa», «sono riusciti a farci togliere pure il mercatino». Mercatino di cor­so Senigaglia, «colpevole della morte di Tullio Sincich, colpi­to da malore: ha bloccato l’am­bulanza», s’indigna Lidia. Era il pivot della leggendaria squa­dra di pallacanestro Giuliana, campione in serie A. «C’è una targa sulla sua abitazione, ep­pure nessun sa chi sia», si strug­ge nuovamente Lidia.

 

«Ignoranza», ripete Dona­tella Schurzel, presidente pro­vinciale dell’associazione Ve­nezia Giulia e Dalmazia. «C’è gente che vive nel nostro quar­tiere da anni ignorandone la stpria, senza desiderare di co­noscerla. Ai bimbi delle ele­mentari, per esempio, nessuno aveva mai spiegato chi fosse Tosi, al quale la loro scuola è dedicata. Abbiamo apposto una targa, spiegando che era un grande educatore annegato dai titini, ed i suoi alunni anda­rono a recuperarne il corpo nell’Adriatico». Roberta, poi, organizza moduli su moduli per raccontare nelle scuole le sventure di tutti quegli Ulisse che ricostruirono la loro Itaca altrove. «Adesso, talvolta, ve­do bimbi che portano per ma­no i loro genitori davanti ai monumenti e spiegano», e un po’ lei si commuove.

 

La piccola Lucia, per esem­pio ha scritto in un tema: «Adesso che conosco tutta la storia, chiedo scusa al mio quartiere per non aver sapu­to». Era ignoranza. A volte, se presa in tempo, puoi guarire.

 

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