Esodo e foibe, fascismo e comunismo, ma anche storia del dopoguerra e prospettive. Queste le tematiche al centro del dibattito di ieri a Bologna, città che ha ospitato la seconda parte del convegno permanente sul confine orientale d’Italia, iniziato a Venezia nel dicembre scorso con lo scopo di focalizzare l’attenzione sui principali aspetti d’analisi storiografica sulle vicende del nostro territorio nell’Ottocento e Novecento.
Iniziativa voluta dalla Federazione degli Esuli con il coinvolgimento del CDM di Trieste, l’appuntamento è stato ospitato ed organizzato nella città emiliana a cura dell’Accademia delle Scienze con il prof. Giuseppe de Vergottini e la partecipazione, nella mattinata, degli storici Marina Cattaruzza (Università di Berna), Luciano Monzali (Università di Bari) e Fulvio Salimbeni (Università di Udine-Gorizia).
Perché un dibattito su questa tematica? Affrontare la vicenda in modo scientifico, affidata a degli specialisti di chiara fama, può contribuire ad elevare la discussione sui nodi della storia del confine orientale a più alti livelli e sottrarla alla banalizzazione ed alla manipolazione della politica, sia nazionale che internazionale.
“Il confine è un luogo saliente della storia europea del Novecento” – ha sottolineato nel suo indirizzo di saluto il prof. Alberto Debernardi, direttore dell’Accademia delle Scienze di Bologna.
Simbolo di due guerre caratterizzate e determinate da profonde divisioni ideologiche e nazionali.
Ma non soltanto, aggiunge il prof. Giuseppe de Vergottini, “è un fattore che ha determinato situazioni complesse di incompatibilità e conflitti etnici che hanno complicato la vita europea degli ultimi secoli e decenni”.
In particolare quello orientale d’Italia viene “vissuto” come simbolo, a fasi alterne, di unificazione nazionale, irredentismo, perdita di territorio nella prima e nella seconda guerra mondiale, in una interazione e a volte commistione tra dati storiografici e reazioni emotive.
Il convegno, quindi – ribadisce de Vergottini – “intende sviluppare l’analisi storica ma anche un ragionamento critico di tipo storiografico sia in ambito locale ma anche più ampiamente in campo europeo. E’ un impegno che ci viene anche dal Giorno del Ricordo, vale a dire l’obbligo di uscire dal locale”.
A sottolinearlo in un messaggio anche l’on. Lucio Toth perché, scrive, “gli Italiani, lo dimostrano indagini statistiche, non stanno dimenticando solo la nostra storia ma anche se stessi”.
E Marina Cattaruzza, conferma che “non è possibile comprendere la storia italiana se non si conosce quella del confine orientale e viceversa”. E’ quanto ha cercato di fare con il suo ultimo libro nel quale riconosce ed indica a chiare lettere i limiti del forte localismo della storiografica giuliana e l’uso “politico” di queste tematiche. Ha voluto riassumere pertanto i punti salienti del percorso d’indagine a partire dalle premesse alla prima guerra mondiale e fino all’entrata della Slovenia in Schengen. Ribadisce la “debolezza” che ha caratterizzato da sempre la presenza dello Stato italiano al confine orientale ed ha prodotto fenomeni come la presa di Fiume da parte dei dannunziani e il passaggio dei militari italiani nelle file legionarie senza alcuna pena nei loro confronti. Debolezza che non ha permesso di sciogliere nodi storici come quello del rapporto con le minoranze e, dopo l’8 settembre ha reso facile l’espansionismo del comunismo jugoslavo.
Completano il quadro della situazione le riflessioni di Luciano Monzali sulla “Fenice che risorge dalle ceneri, ovvero gli Italiani di Dalmazia”.
Lo studioso, autore di volumi che hanno fornito una interpretazione estremamente moderna delle vicende dalmate, anche questa volta non tradisce la sua impostazione. Si concentra sulla storia recente, scomoda dal punto di vista storico-scientifico perché va ad indagare su realtà ancora inesplorate, difficili da scindere dalla forte carica emotiva che le accompagnano.
Due le vicende affrontate: il “destino” degli esuli e la condizione degli italiani rimasti nelle città dell’Adriatico orientale. La prima domanda alla quale cerca di dare risposta è il perché dell’esodo.
E’ una reazione alle imposizioni del comunismo e per comprenderlo bisogna considerare l’esodo più ampio che dal 1943 al ‘50 comprende anche tedeschi del Banato ed anticomunisti Serbi, croati e Sloveni.
Ma non tutti gli Italiani dalmati se ne vanno: chi ha partecipato alla resistenza, chi si sente legato più alla Piccola Patria dalmata che alla Grande d’Italia, i misti, donne italiane sposate con dei croati, gli anziani. Rimangono piccoli gruppi a vivere nella Jugoslavia comunista con grandi difficoltà. Il regime accetta la loro presenza ma con un ruolo subordinato vale a dire di uomini ligi al regime e comunisti. Viste le premesse non c’è possibilità in Dalmazia – dice Monzali – di sopravvivenza di realtà pubbliche italiane, si chiudono per tanto nel 1953 le scuole. Che cosa diventano gli italiani rimasti: italiani sommersi.
Gli esuli dalmati si stabiliscono in gran parte nell’Italia centro-settentrionale. Monzali ha affrontato, ed è una grande novità in questo campo, il ruolo dell’associazionismo. Se in un primo periodo la loro realtà è politicizzata e fortemente caratterizzata da scelte di stampo nazional-fascista, l’evoluzione e la nascita di nuove realtà porta ad un graduale mutamento e ad un ritorno, soprattutto con un personaggio come Rismondo, direttore del giornale “Zara”, ai valori della tradizione ed ai legami autentici alla terra Dalmazia, anche con il recupero del dialetto sul giornale e durante i raduni.
Per gli esuli l’Italia presenta molteplici problemi di integrazione sia di natura culturale che psicologica. I cognomi dalmati in “ich”, la loro fisionomia e caratteristiche fisiche sono un trauma per un Paese sostanzialmente provinciale. Il percorso sarà lungo e difficile. Ma il successo di personaggi come Missoni, Luxardo, Bettiza e la loro dimensione mediatica faranno sì che i Dalmati esprimano con orgoglio la propria appartenenza e ritrovino la strada verso “casa”.
L’apertura dei confini jugoslavi negli anni Sessanta, il turismo, i rapporti economici favoriranno un ritorno anche culturale dei Dalmati a Zara, a Spalato e poi nelle altre località attraverso la cura dei cimiteri e poi con la nascita delle Comunità degli Italiani in loco, grazie anche al contributo degli esuli.
La storiografia a questo punto – come ribadisce il prof. Fulvio Salimbeni – espande il proprio interesse, oltre che ai documenti archivistici, anche a testimonianze più culturali come la storia del cinema e del rapporto che ha sviluppato con il territorio dell’Adriatico Orientale e della letteratura. Due segmenti di estrema importanza che permettono di cogliere aspetti del messaggio che di queste tematiche hanno potuto cogliere gli italiani in questi sessant’anni.
Il resto è storia recente, comunque da esplorare, perché fornisce delle risposte su ciò che vuole essere il futuro. Una comunità – esuli e rimasti – che si è espressa per decenni attraverso la politica, può concentrarsi sulla cultura, grazie all’evolversi di una situazione globale. L’Europa potrebbe fare il resto.
Il convegno è proseguito nel pomeriggio con il dibattito, al quale ha preso parte anche Maurizio Tremul a nome di Unione Italiana, oltre ad esponenti degli esuli ed autori di volumi e ricerche sul tema specifico.
Rosanna Turcinovich Giuricin su www.arcipelagoadriatico.it