di Gianna Duda Marinelli su Rinascita del 7 maggio 2010
Con la cerimonia allo scoglio di Quarto per ricordare i Mille viene dato l’avvio ai festeggiamenti celebrativi per il Centocinquantenario dell’avvenuta Unità d’Italia che avranno inizio il 17 marzo 2011. Ad un anno dall’avvenimento, ricorrendo ad una pubblicazione di G. Vignoli del 2009 intitolata “Gli Italiani dimenticati” è un dovere ricordare degnamente anche i connazionali dell’Istria e della Dalmazia, Esuli in Patria e sparsi ai quattro angoli della Terra, ormai senza collante.
Nel 1861 il territorio dell’Italia Unita era incompleto ed anche dopo la vittoriosa Prima Guerra mondiale il cedimento del governo italiano con la firma del Trattato di Rapallo mostrerà ancora una volta il volto della rinuncia.
Cento e cinquanta anni fa l’Unione era monca, riscontrata nell’incompletezza dell’arco alpino orientale con il territorio che fino al 1797 aveva costituito la defunta Repubblica di Venezia. Secondo i limiti regionali odierni, si trattava di parte della Lombardia, della Venezia Euganea e Giulia con Trieste, Gorizia, l’Istria e della Dalmazia.
Nel 1866 dopo la guerra Austro Prussiana in cui l’Italia era stata alleata della seconda, con la Pace di Vienna ed il collaudato sistema del passamano era riuscita ad annettersi indirettamente la Venezia (Euganea) ed il Friuli in cambio di un patto di non aggressione nei confronti dell’Impero, in questo modo quei territori da Napoleone III erano passati ai Savoia.
Dal 1866 la maggior parte del territorio della defunta Repubblica dovrà attendere ancora più di cinquant’anni, troppo tempo per una popolazione provata dalla lotta per frenare la pressione della politica asburgica che mirava a modificare l’etnia della gente della costa. Ciò costituirà un problema forse già previsto dall’Impero ma anche dall’Italia che non saprà o non vorrà mai realmente risolvere.
L’irreparabile danno derivato alla popolazione dalla frettolosa liquidazione della Serenissima, iniziato durante il periodo Napoleonico e concluso dai rappresentanti delle potenze presenti nel 1815 al Congresso di Vienna aveva causato la frattura del naturale equilibrio tra la gente della costa orientale ed occidentale dell’Adriatico caratterizzato dai tradizionali rapporti culturali e commerciali.
Gli appelli dei Veneti erano rimasti inascoltati perciò i rappresentanti degli Stati presenti a Vienna non potevano non essere al corrente delle conseguenze che sarebbero derivate dallo smembramento sconsiderato dell’ultima Repubblica marinara Italiana. Già nel 1797 un “Cittadino Socio” della “Società di Pubblica Istruzione” di Venezia prevedendo quanto stava per succedere faceva stampare un opuscolo intitolato “Observations sur la Dalmatie e l’Istrie d’un Cittadino Socio”. Si trattava di 52 pagine divise in 3 capitoli. Il primo era dedicato alla protesta della “Municipalità provvisoria di Venezia” sull’occupazione dell’Istria e della Dalmazia, azione che lasciava “libero il campo alle mature e sensate riflessioni d’ogni Cittadino, ch’amasse il bene della sua Patria e lo credesse attaccato all’unione dell’Istria e della Dalmazia col resto dell’Italia libera e singolarmente colla città di Venezia”. In sintesi si temeva per il futuro di quel territorio tutto marittimo. Il secondo capitolo proponeva “un quadro della Dalmazia e dell’Istria pennelleggiato da mano maestra, una storia circostanziata delle diverse città e porti di mare di queste Provincie, un ragguaglio esatto del commercio, dei boschi e dei prodotti di ciascheduna di esse sul rapporto intimo, ch’elle hanno cogli interessi politici e commerciali dell’Italia”. Nel terzo, il cittadino socio “mette sotto gli occhi della Francia il disequilibrio, che cagionerebbe all’Europa il possesso dell’Istria e della Dalmazia tramandato ad altra potenza, la quale acquisterebbe un’assoluta preponderanza sull’Adriatico, e sul Levante e potrebbe ridurre allo squallore e all’inazione il commercio dell’Italia tutta opponendosi alla di lei generale prosperità e allo stabilimento d’un arsenale e d’una Marina”. In chiusura il comitato “delibera sollecitamente la pubblicazione di queste importantissime verità e ne commette per acclamazione la stampa”.
Tramontato l’astro Napoleonico, nel 1815, nell’ambito del Congresso di Vienna, veniva stabilito che gli Stati che avevano subito dei cambiamenti in quegli anni dovevano ritornare nella condizione preesistente, veniva promessa la Restaurazione, norma che nel caso di Venezia non era stata applicata.
La Lombardia ed il territorio della Serenissima costituito dal Veneto, dall’Istria e dalla costa orientale dell’Adriatico, da Segna alle Bocche di Cattaro, veniva assegnato all’Impero Austriaco che da potenza continentale diventava una neo potenza marittima obbligata a servirsi della gente di mare della defunta Repubblica marinara.
Dal 1848 al 1866 si combatteranno le tre guerre d’Indipendenza con le alterne sconfitte e vittorie, contemporaneamente in quegli anni si intrecceranno interessi e cedimenti, tutti definiti diplomaticamente corretti. Dall’appello della “Società di Pubblica Istruzione” trascorreranno circa settant’anni per arrivare alle date di due lettere autografe di G. Garibaldi dalle quali traspare il suo pensiero ed il sentimento nei confronti dei Fratelli dell’ex Repubblica di San Marco e di Trieste.
La prima lettera era gratulatoria, portava il numero 1789 di un archivio. Datata Belgirate, 10 giugno 1862, era indirizzata “Agli Emigrati Fratelli dell’Istria e Trieste” per sottolineare che, “la diligenza veramente distinta con cui spontanei deste opera a raccogliere le carte idrografiche e geografiche del Mare Adriatico e sua costa Orientale, – è prova novella che il Vostro patriottismo vi tempra nel proposito di operare davvero per la completa redenzione della Patria.
La gentilezza poi, con cui voleste delle Carte stesse fare dono a me, è alta testimonianza di quel fraterno affetto che io vado lieto di contraccambiarvi, congiunto alla più sentita riconoscenza.
So che l’Istria e Trieste anelano frangere le catene, con cui le avvince odiata Signoria straniera; so che affrettano col desiderio il compimento del voto di essere restituite alla madre Italia. Quantunque tristizia dei tempi e di uomini sembra voglia impedire il compimento di quel voto; io ho fede che non sia lontano il giorno delle ultime battaglie, delle ultime vittorie da cui sarà suggellato il completo nazionale riscatto”.
Prima di analizzare la seconda lettera autografa va considerata la copia di uno scritto datato Firenze 18 maggio 1865 che “I rappresentanti della Venezia e dell’Istria al Centenario di Dante” avevano inviato a Garibaldi. Nella lettera originale, forse conservata ancora tra la corrispondenza di G. Garibaldi si potrebbe conoscere l’elenco completo dei firmatari che nella copia è incompleto: A. Antonaz, Giuseppe Fabris Basilisco, Dr. Antonio Arrigoni, Antonio Dr. Canova, Tomaso Luciani, Alessandro Pascolato, Arnaldo Fusinato.
Il gruppo esprimeva la delusione di non aver incontrato Garibaldi a Firenze, “là vi avremmo ancora una volta ridetto quanto pendi Venezia dal vostro mare e dalla vostra spada, Venezia sempre fedele al vessillo da voi spiegato e a qual motto che comprenda le azioni, le glorie e i dolori vostri = Italia una e Vittorio Emanuele”.
Lo scritto oltre alle glorie ed ai dolori, sottintende la delusione di Garibaldi contenuta nella frase “= Italia una e Vittorio Emanuele”, sottintendendo che purtroppo non era nata un’Italia Repubblicana.
La seconda lettera del 29 gennaio 1867 era stata inviata da Caprera ed era indirizzata all’Albonese Tomaso Luciani, e diceva, “Mio caro Luciani, sol io sono un vero amico dell’Istria ed il più fervido de’ miei desideri è quello di poter servire la causa di quella terra Italiana. Grazie per i preziosi scritti che leggerò con molto interesse”.
Intanto nel 1866, Venezia, il Veneto e quasi tutto il Friuli erano state annesse all’Italia; Trieste, Gorizia, l’Istria e la Dalmazia dovevano attendere gli esiti della Prima Guerra mondiale. La Dalmazia, escluse Zara e le isole di Lagosta, Pelagosa con il Trattato di Rapallo veniva abbandonata ad un destino che storicamente non le apparteneva.
Conoscendo quale sia stato il destino di gran parte della Venezia Giulia con l’Istria, Fiume e Zara, si può ben comprendere che quella popolazione raminga non può avere lo spirito di partecipare ai festeggiamenti del 2011.
A quasi novant’anni di distanza non è fuori luogo ricordare che nell’anno scolastico 1922 – 1923 il tema di Italiano assegnato all’esame di Maturità degli Istituti Nautici era stato, “Garibaldi non ebbe educazione da fanciullo ma la sua educazione fu il mare”. Il mare unisce e le due lettere lo testimoniano, il Generale nato nel Golfo di Nizza, abituato a guardare verso le infinite acque dell’Oceano era sinceramente vicino alla gente dell’Adriatico anche se per tradizione concorrente commerciale di Genova.
Ora è inutile e troppo tardi per ricercare la scintilla che ha prodotto il disegno disgregante di un popolo marinaro perseguito con perseveranza da coloro che hanno gestito il potere per più di duecento anni.
Sembra che ancora nulla sia realmente cambiato, proprio qualche giorno fa, tra l’1 ed il 2 maggio tra Lido di Camaiore e Viareggio, i soliti “noti” hanno divelto ed asportato il cartello stradale che indicava la “via Martiri delle Foibe”. Prima che abbiano inizio le evocazioni del 2011, è troppo chiedere che venga riconosciuta la storia vera e le sofferenze degli Italiani dell’Est, non solo in occasione di alcune cerimonie ufficiali ma sinceramente da tutti i connazionali? La tragedia iniziata nel 1943, ripresa con maggiore determinazione dopo il 1945, ha avuto quale conseguenza il sovvertimento etnico di quelle regioni. Solo recentemente si è cercato di far conoscere questi fatti nascosti nei meandri degli anni bui da cui forse stiamo uscendo, però esistono ancora i “progressisti conservatori” che continuano a negare. Proprio la Patria che avrebbe dovuto avere il compito di sostenere, comprendere e aggregare, con la sua disaffezione ha deluso i più anziani insinuando il dubbio nei loro discendenti contagiati da una sindrome depressiva individuabile in un insanabile dubbio d’appartenenza.
Negli ultimi versi del coro del III atto dell’Adelchi, “Col novo signore rimane l’antico/l’un popolo e l’altro sul collo vi sta./Dividono i servi, dividon gli armenti/si posano insieme sui campi cruenti/d’un volgo disperso che nome non ha”. A. Manzoni era riuscito a sintetizzare il profilo di un popolo “che nome non ha” figlio della speranza e della tragedia, che oggi come ieri, non può partecipare a festeggiamenti che non gli appartengono.