di SIMONETTA ROBIONY su La Stampa del 7 gennaio 2011
Da cinquant’anni Leo Gullotta è uno dei protagonisti dello spettacolo italiano. Ha fatto tutto: teatro, varietà, fiction, show, cabaret, cinema, doppiaggio. Ha vinto tutto: Nastri, Globi d’oro, Ciak, David, Premi Flaiano. Adesso è a Roma, all’Eliseo, con Le allegri comari di Windsor per la regia di Fabio Grossi, musiche di Germano Mazzocchetti, nel ruolo di Falsfaff. Sulla scena un enorme pupazzo della regina Elisabetta la Grande che ordinò a Shakespeare la commedia per divertire il suo popolo. E sotto l’immensa gonna reale che s’apre come un sipario si svolge l’azione. Come tante volte gli è capitato Gullotta è irriconoscibile nel costume che lo trasforma in un grassone, irsuto di pelo rosso, stretto in abiti secenteschi che a stento lo contengono. «Ho la faccia di gomma», dice. Gullotta è l’uomo più normale che si possa incontrare per strada: né bello né brutto, né alto né basso, né vecchio né giovane: non ha un naso grosso, uno sguardo penetrante, una bocca vistosa, neppure dei nei. Sarà anche per questo che può fare qualsiasi ruolo. Unica anomalia per un attore: quattro pacchetti di sigarette davanti allo specchio in camerino e la voce che resta fresca e integra. Ha cominciato a 14 anni mentre andava a scuola a Catania: «Lessi un cartello: Centro culturale teatrale» ed entrai». Finì allo Stabile di Turi Ferro e ci restò dieci anni con otto nove testi a stagione, da Camilleri a Sciascia, da Pavese a Pippo Fava. «Non avevo il sacro fuoco ma ero una spugna: assorbivo ogni cosa».
Il Bagaglino
A ventiquattr’anni l’arrivo a Roma per guardare com’era fatto il mondo fuori da Catania. E qui c’è la svolta: il cabaret con Lando Fiorini, poi «La chanson», infine «Il Bagaglino» al Salone Margherita che era stato un tempo di Petrolini. Da qui il successo in televisione, prima su Raiuno poi su Canale 5, nei panni della signora Leonida accanto a Oreste Lionello: una icona che gli è restata attaccata.
«Facevamo fino a 14, 15 milioni di spettatori e siamo entrati per 21 anni nelle case degli italiani per tre mesi l’anno, ogni stagione. Per il resto del tempo facevo teatro, molti classici, e cinema, dai cinepanettoni a Nanni Loy».
L’invadenza di un personaggio come la signora Leonida l’ha patita?
«Mai. Era il mio lavoro. E se ci metti passione ogni lavoro è ben accetto».
Ma Castellano e Pipolo facevano uno spettacolo di destra, mentre lei di destra non lo è mai stato.
«Più che di destra, molto nazional-popolare che parlava alla pancia degli italiani, ma che ha anche anticipato Tangentopoli e sfotteva i potenti di allora: Craxi, Andreotti, De Mita. Non mi imbarazzava, anche se io sono di Rifondazione comunista, amico di Bertinotti. Una scelta nata forse perché mio padre, che era un pasticciere, m’aveva insegnato che i diritti degli esseri umani vanno sempre difesi».
Gay senza ostentazione
La sua prima casa a Roma fu una stanza in affitto senza telefono da una tedesca, in via Panisperna, dove rimase dieci anni.
«Mi facevo chiamare al ristorante La carbonara dove mangiavo ogni giorno e richiamavo col telefono a gettone».
Già guadagnava bene, però?
«Sì, ma coi primi soldi comprai un appartamento a mia madre a Catania: sono l’ultimo di sei figli, nato a distanza di dieci anni dal più piccolo. Per lungo tempo lei sola è stata la mia famiglia».
Che ha significato avere successo?
«Direi niente. I premi mi fanno piacere, li prendo, li metto in casa e li dimentico. Essere riconosciuto dalla gente mi rallegra, rispondo a tutti con cortesia. Ma se vado al ristorante prenoto perché detesto usufruire del privilegio che per me un tavolo si trovi sempre. E la beneficenza la faccio in segreto, come si dovrebbe».
Un siciliano anomalo, di estrema sinistra in una Sicilia fondamentalmente berlusconiana, omosessuale in una terra che ha fatto del maschilismo il suo marchio.
«Sono un cittadino qualunque e come tale non amo ostentare le mie scelte private. Non faccio comizi, ma quando posso difendo con le mie parole diritti che considero inalienabili, da quello al lavoro retribuito equamente a quello alla cultura che è il sale della critica e della democrazia. I nostri politici dicono che con la cultura non si mangia perché non è una fetta di mortadella. Ma con la monnezza quanti di loro ci hanno mangiato? Sono 250mila gli addetti del nostro settore: è tutta gente che va rispettata».
Neanche l’omosessualità le ha creato problemi?
«Sono stato etero per un certo tempo, poi, con naturalezza, ho scoperto che mi piaceva di più l’altro. Cresciuto in una famiglia libera ho fatto le mie scelte. Non le ho mai sbandierate anche se sono a favore delle unioni gay come a favore della difesa di qualunque minoranza».
La sua omosessualità le è mai stata di ostacolo?
«Solo una volta. La Rai voleva fare una fiction su Don Puglisi e aveva scelto me per il ruolo del protagonista. Poi la Chiesa cominciò a parlare di beatificarlo e i funzionari della tv di Stato, più realisti del re, mi tolsero la parte. Non era bello che un gay facesse un santo. Con Luigi Manconi decisi di denunciare il caso con una interrogazione parlamentare, ma in quel periodo diventava capo del governo Berlusconi e, denunciando una cosa avvenuta sotto il centro-sinistra, pareva volessi montare sul carro del vincitore. Ho fermato tutto».
Il ricordo più bello
Secondo lei cosa piace al pubblico?
«Lo spettacolo deve essere sempre stupefacente ed emozionante. I tagli non giovano: bisogna spendere. Per fortuna i miei ultimi Pirandello hanno sempre fatto grandi incassi».
La televisione è cambiata?
«E’ stata colpita dal virus della mediocrità e dell’incretinimento. La qualità è scesa. Ci sono moltissimi giovani attori bravi e capaci, ma anche molte stelline raccomandate da questo o quel politico. Non è una novità, certo. Anche prima esistevano, ma si contentavano di piccole parti, poi lui le apriva una profumeria e scomparivano».
Tra le mille cose fatte quali sono quelle per le quali ha più affetto?
«Quelle che rafforzano la memoria delle nostre tragedie nazionali: il Vajont, il processo Tortora, le foibe, la camorra. Ma il ricordo più bello è il set di Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore. Per mesi abbiamo vissuto tutti insieme in un paesino della Sicilia, Palazzolo Acreide: Noiret, Pupella Maggio, Isa Danieli, Peppuccio, scambiandoci racconti e risate. Il film ha vinto l’Oscar. Per me, però, la cosa migliore furono quei mesi là».
(Leo Gullotta, accanto ad Anna Maria Mori, riceve il Premio Internazionale del Giorno del Ricordo a cura dell'ANVGD, in occasione di uno spettacolo dedicato all'Esodo nel teatro del Quartiere giuliano-dalmata di Roma)