di Sandro Viola su La Repubblica del 7 maggio 2010
Quando a noi giornalisti stranieri era consentito di vederlo da vicino, in occasione della visita d´un capo di Stato o di governo nella sua residenza del Palazzo Bianco a Belgrado, il nostro sguardo andava subito alla sua uniforme. Pur non essendo pagliaccesche come le "mises" di Muhammar Gheddafi, le uniformi del Maresciallo Tito non si potevano certo dire, infatti, sobrie. Intanto erano numerose, cambiavano continuamente: e i colori, i medaglieri, le cinture, gli stivali erano tali da stupire quasi sempre gli astanti. Per primo Winston Churchill, quando i due s´incontrarono a Napoli nell´agosto del 1944 sul terrazzo di villa Rosenberg, residenza del comandante alleato in Italia, il generale Alexander. Churchill indossava un vestito di lino bianco un po´ stazzonato, Tito una delle sue prime, pretenziose uniformi da Maresciallo.
E infatti il premier inglese chiese, dopo l´incontro, ai suoi collaboratori: «Ma non mi avevate detto che combatte contro i tedeschi in montagna? S´è dunque portato in montagna anche il sarto?».
Milovan Djilas, il suo ex amico e compagno di lotta, che sarebbe più tardi divenuto il critico implacabile del comunismo burocratico nella versione jugoslava, attribuiva a Tito «una sete di decoro, lusso, pompa». E questa sete, non c´è dubbio, fu un tratto molto preciso e ben visibile della personalità di Tito. Già negli anni Sessanta, il Maresciallo viveva tra il Palazzo Bianco e le altre residenze ufficiali (tra le quali c´era quella da lui più amata, la villa nell´isola di Brioni) come un sovrano balcanico del periodo tra le due guerre. Pranzi, cacce, crociere sul panfilo di Stato. E la mania delle uniformi pittoresche, unita ai capelli tinti d´un incredibile rossastro, facevano pensare, quando appariva in pubblico, all´incedere d´un baritono da operetta.
Questa eccessiva, discutibile, un po´ patetica cura dell´aspetto, e i lussi di cui si circondava, erano la sua unica debolezza. In essa entravano sicuramente la memoria della sua infanzia povera nella campagna croata, ma forse ancora di più i ricordi degli stenti, del carcere, dei tremendi pericoli vissuti prima da giovane rivoluzionario comunista, e dal 1941 al 1945 in montagna, a capo della resistenza jugoslava contro l´invasione nazi-fascista: la sola resistenza in tutta Europa che combatté aspramente contro la Wehrmacht non solo con azioni di guerriglia, ma in vere e proprie battaglie campali.
Benché con gli anni si fosse fatto molto corpulento, con i medici impegnati a controllarne attentamente le condizioni cliniche, i suoi biografi concordano sull´eccezionale vigoria fisica di Tito ancora dopo gli ottant´anni. Mangiava molto. C´è la testimonianza del proprietario d´un albergo nel sud della Francia, dove il Maresciallo pernottò una volta dopo un incontro a Parigi con de Gaulle. «Alla prima colazione servimmo – secondo le richieste dei suoi accompagnatori – minestra di cavolo, salsicce, pollo arrosto». E l´appetito non si limitava al cibo. Negli anni in cui i giornalisti stranieri bazzicavano molto Belgrado (dove s´era formata, all´ombra del titoismo, una delle più esperte, intelligenti diplomazie europee), la capitale jugoslava era percorsa da una quantità di voci sulle capacità amatorie del Maresciallo. Giovani attrici introdotte segretamente a Palazzo Bianco, belle segretarie che chiamate nel suo ufficio vi restavano molto più del tempo necessario a sbrigare una pratica.
Le donne, racconta Gilas, gli erano sempre piaciute giovani e belle. Lo era la russa Pemagija Bjelussova, che Tito aveva sposato quando era prigioniero in Siberia durante la Prima guerra mondiale. Lo erano Herta Hass e Davorjanka Paunovic, due giovani con cui Tito convisse con ciascuna vari anni ma senza sposarle, e così anche l´ultima moglie, Jovanka Budisavljevic. Su costei Djilas avanza, nella sua biografia del Maresciallo, il sospetto che gli fosse stata messa attorno da Rankovic, il potente capo dell´Udba, la polizia politica, con funzioni di sorveglianza e controllo. L´ipotesi è credibile? Difficile dirlo, ma è vero che nei Paesi comunisti (e la Jugoslavia, nonostante la sua indipendenza da Mosca a partire dal ‘48, era un Paese a sistema comunista) cose come questa potevano tranquillamente accadere.
Ma detto delle sue debolezze e appetiti, qualcosa bisogna anche dire della grande statura politica di Tito. Intanto l´aver dato per 35 anni una parvenza di unità, d´identità nazionale, a un mosaico composto da sei repubbliche, cinque etnie, quattro lingue, due alfabeti e tre religioni. Già questa fu un´opera meritoria, anche se realizzata attraverso l´uso d´una ubiqua, possente polizia politica. Ma c´è di più: nessun Paese salvo le grandi potenze ebbe in Europa, tra la metà dei Cinquanta e la metà dei Settanta, tanto spicco internazionale, prestigio e peso diplomatico come l´ebbe la Jugoslavia comunista.
Agli occhi dell´Occidente, il Maresciallo appariva infatti come l´uomo che nel ‘48, d´un sol colpo, era riuscito a fermare la spinta russo-sovietica verso l´Adriatico e il Mediterraneo, oltre a mandare in frantumi il mito dell´unità del campo comunista. Con Tito, la Jugoslavia non era più la marginale, pretenziosa monarchia balcanica dell´"entre deux guerres", una pedina nel gioco delle sfere d´influenza condotto dai governi europei. Era divenuta una nazione che svolgeva un ruolo-chiave sulla scena internazionale dominata dalla Guerra fredda. E lo svolgeva ad ampio raggio: dall´Oriente (con lo schieramento dei "non allineati") all´Europa dove si fronteggiavano Usa e Urss. Un varco attraverso il quale l´Est e l´Ovest poterono osservarsi, e in molti casi mediare.
Scrive Djilas: «Nel corso d´una conversazione che aveva per oggetto le forze che plasmano la storia, affermai che sono le idee, il popolo, le masse a costituire il fattore decisivo. Tito mi guardò con uno sguardo impaziente, poi disse: "Macché, macché! Molte volte il corso della storia dipende da un´unica persona". Era evidente che pensava a se stesso». Quello cui il Maresciallo non pensava in quel momento, era a quanto sarebbe successo dopo la sua scomparsa.