Qualcosa mi dice che in Italia, paese in cui il senso di appartenenza politica si è quasi rinvigorito proprio negli anni in cui le ideologie del Novecento mollavano la presa, non si arriverà mai a una memoria condivisa. E dunque è con rassegnata passione civile che vorrei ricordarvi che in questo mese di febbraio, il giorno 10, cade la giornata dedicata alla memoria delle foibe.
Diffido, in genere, delle scadenze istituzionali, con le loro inevitabili ufficialità e retorica, anche se in questo particolare caso l’istituzione di un “giorno della memoria” valse a risarcimento tardivo e amaro per tanti sopravvissuti a quella tragedia, a lungo ignorata, e qualche volta addirittura vilipesa. Ma non voglio ricordare ciò che tutti sanno: gli eccidi perpetrati dai partigiani titini tra migliaia di cittadini italiani nella Venezia Giulia, in Istria, in Dalmazia durante e, ancor peggio e soprattutto, dopo la fine della seconda guerra mondiale. Né ricordare le orrende modalità di tante morti, con le vittime scaraventate vive negli abissi carsici, o il carattere etnico di queste stragi: furono uccisi in maggioranza uomini e donne inermi, che non avevano mai vestito una divisa, e che nella stragrande maggioranza avevano solo il torto di essere italiani. Né voglio aggiungere quel che si deve aggiungere: la storia delle responsabilità del fascismo, l’italianizzazione forzata. O rivangare il negazionismo che a lungo ha vinto, in Italia, circondando di silenzio e di vergogna quelle pagine di storia.
Voglio parlarvene con animo quieto e innocente, come si parla a persone che possono trascorrere un fine settimana a Trieste, o una vacanza di mare, la prossima estate, sull’altra costa dell’adriatico. E, più ancora, voglio scrivere di come quella storia ha lambito la vita della mia famiglia, diventando un piccolo patrimonio immateriale di esperienze, e una lezione da conservare in casa.
Quand’ero bambino, i miei a volte ne parlavano, con i loro amici, ma stando attento che noi, io e mio fratello, non udissimo, come per proteggerci da brutture troppo vicine nel tempo. Naturalmente era proprio quella loro precauzione a farmi ascoltare di nascosto quelle storie raccontate attorno al tavolo della cucina. La storia che mi porto ancora dietro, come una cicatrice infantile, era quello di un uomo che era stato squartato, e gli avevano messo un gatto nel ventre, e ricucito con un fil di ferro, e gettato nella foiba. Quella scena girava come un film spaventoso e in bianco e nero, certe sere, nel letto freddo.
I miei erano stati profughi, e questo ha fatto sì che io nascessi dove sono nato. I miei, da Fiume, erano andati a Trieste, ma il Governo Militare Alleato non prevedeva che poliziotti non triestini, come mio padre, potessero restare in città, e così i miei scelsero come destinazione provvisoria, in attesa del ritorno, un paese poco lontano, che si chiama Cervignano del Friuli.
Quando l’Italia tornò a Trieste, io avevo ormai l’età per iniziare le elementari, e i miei non tornarono più nella città che mia madre, più di cinquant’anni dopo continua ancora a rimpiangere e sognare. Ma i miei non mi insegnarono l’odio: mia madre aveva amiche della minoranza slava, sue compagne di collegio, che io chiamavo zie.
Ero ancora piccolo quando ospitavamo, la domenica, una coppia di croati fuggiti dalla Yugoslavia, che stava in un campo profughi e giocava con me immaginando il figlio che, appena le cose si fossero sistemate, avrebbero voluto. Ogni anno, dall’Australia, arrivavano i loro auguri di Natale, con la fotografia di una famiglia che si allargava, e a un certo punto dietro il gruppo di famiglia spuntava una piscina, così che io pensai che in Australia, mondo capovolto, gli elettricisti fossero molto ricchi.
E’ stato solo molto tardi che ho imparato qualcosa sulle foibe, e ho saputo di amici di mio padre che erano scomparsi così. Come è stato molto tardi che ho saputo di mio padre che collaborava all’opera del vicequestore Palatucci, nel salvare, a Fiume, centinaia di ebrei. Erano funzionari della Repubblica di Salò, in fondo, e nella mia testa giovane che il bene e il male stessero ovunque provocava confusione e dubbi nemici delle semplificazioni giovanili, che molti protraggono fino in età matura.
Poi uscì, stampata in un libro, quella che per me era una storia famigliare, l’incontro tra mio padre e Palatucci, che va a morire in campo di concentramento. Storie complicate, che hanno visto passare nelle case in cui ha abitato la mia famiglia un bambino ebreo e, molti anni dopo, un bambino musulmano, nel momento in cui entrambi erano soli.
Ecco, se qualcosa la memoria mi insegna, e mi spinge a dire qualcosa ai miei figli, non è un generico buonismo, in cui tutti siamo fratelli, come in una specie di Natale permanente. No: è che bisogna guardare alle persone, a quello che fanno, più che alle bandiere e a quello che proclamano. Me lo diceva mio padre, e io scuotevo la testa, perché trovavo povera, rassegnata e qualunquistica l’affermazione.
Certo, non è un grande messaggio per un giorno istituzionale, ma ho detto di non essere entusiasta dei calendari ufficiali. In fondo, pochi giorni dopo è San Valentino, e sorrisi e regali, e frasi d’occasione vengono meglio.
Toni Capuozzo
da "Qui Touring", febbraio 2011