L’eleganza di un protocollo che si ripete, i discorsi, il concerto, sono ormai una tradizione che innesta comunque, ogni anno, delle nuove dinamiche di rilettura di una vicenda storica e del suo superamento.
Ancora una volta, alla presenza del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, si è celebrato oggi al Quirinale il “Giorno del Ricordo”, istituito con la legge del 30 marzo 2004 al “fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.
Si avverte l’avvicinarsi di una certa catarsi, di una lettura del passato pacata e misurata, proiettata verso quel futuro che tutti vorremmo, di pace, di dialogo, di collaborazione e, visti i capricci dell’economia, anche di cooperazione, al fine di quel benessere che è traguardo comune. Se è vero che la storia è già stata e nulla si può fare per cambiarla è anche vero che una sua giusta lettura può aiutare un popolo sparso a darsi una nuova dimensione, a focalizzare nuovi campi d’intervento, decidere il bagaglio ancora da sviluppare. Un compito difficile, contorto, che ha bisogno dell’intervento di idee ed energie ma che sta maturando nel tempo, anche grazie a questi momenti emblematici che poi magicamente convergono in occasioni epocali, come l’incontro dei Tre Presidenti a Trieste nel 2010 o quello di settembre 2011 a Pola, con protagonista la comunità italiana d’Istria, Fiume e Quarnero.
Li ricorda il Presidente Napolitano continuando sulla strada iniziata, anche tra le polemiche, sei anni fa, ma mai abbandonata, nella convinzione che fosse giusta e sacrosanta, confermata dal tempo, piena di nuovi spunti e di sfide da cogliere.
“Serve ricordare anche per ripensare a tutti i fatali errori al fine di non ripeterli mai più”. Ha sottolineato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, rivolgendosi in particolare ai familiari delle vittime degli eccidi delle Foibe che nella stessa mattina di ieri si sono visti consegnare medaglie e riconoscimenti in ricordo dei propri congiunti.
“E’ la sesta volta che lo celebro qui – ha detto Napolitano – e credo di poter dire che di anno in anno abbiamo sempre arricchito di nuovi punti di vista e di nuovi accenti la scelta della memoria e dell’omaggio che il Parlamento ha voluto sancire per legge”.
Il presidente ha espresso il suo “sentimento di vicinanza e solidarietà mio personale e delle istituzioni repubblicane ai familiari delle vittime delle orrende stragi delle Fobie e ai rappresentanti delle associazioni che coltivano la memoria di quella tragedia e dell’esodo di intere popolazioni”.
Il capo dello Stato ha insistito molto sulla necessità di “coltivare la memoria e ristabilire la verità storica”. Perché l’istituzione del Giorno del Ricordo ha contribuito a mettere fine a “ogni residua congiura del silenzio”, ha continuato Napolitano citando il proprio intervento della cerimonia dello scorso anno.
“E’ la visione europea che ci permette di superare ogni tentazione di derive nazionalistiche, di far convivere etnie, lingue, culture e di guardare insieme con fiducia al futuro. E’ in Europa che dobbiamo trovare nuovi stimoli, facendo leva anche sulle minoranze che risiedono all’interno dei nostri paesi – ha continuato il presidente della Repubblica – e che costituiscono allo stesso tempo una ricchezza da tutelare un’opportunità da comprendere e cogliere fino in fondo”.
Nel suo discorso, Napolitano ha ricordato la necessità di un impegno contro le derive nazionalistiche in Europa, quale tributo per le nuove e le vecchie generazioni. “Lo dobbiamo – ha detto – tanto alle generazioni che hanno sofferto nel passato quanto alle nuove, cui siamo in grado di prospettare società più giuste e più solidali, capaci di autentica coesione perché nutrite di senso della storia, ricche di un’intensa esperienza di riconciliazione e di un nuovo impegno di reciproco riconoscimento”.
La cerimonia aveva avuto inizio, in una sala gremita di autorità ed ospiti, con il saluto del prof. Giuseppe de Vergottini, a nome delle Associazioni degli Esuli nel quale ha inteso ribadire che “per questo valore universale delle nostre vicende l’azione delle associazioni degli esuli giuliano-dalmati è oggi dedicata non solo a ricordare a tutti gli italiani una pagina di storia colpevolemente dimenticata, ma a costruire un tessuto di relazioni con le nazioni al di là dell’Adriatico per percorrere insieme, alla luce dei principi dell’Unione Europea, un cammino comune di comprensione e di rispetto reciproci”.
E’ seguito l’intervento del ministro per la Cooperazione internazionale e lo sviluppo, Andrea Riccardi, che ha sottolineato quell’amnesia nata “dalle passioni e dalle lotte della Guerra fredda, ma oggi quel tempo è finito”. Ed aggiunge: “Fu una storia terribile tra italiani d’Oriente e slavi d’Occidente in una terra con una complessa stratificazione etnica”. Una storia, “ripetutasi fino a ieri nei Balcani”, ha continuato. Negli anni della Seconda guerra mondiale si trattò di “aggressioni contro italiani inermi da parte di jugoslavi solo perché erano italiani e mettevano in discussione il controllo titoista – ha ribadito il ministro – oggi sappiamo del disegno stalinista che usava le etnie per affermarsi”. Secondo Riccardi, “le politiche di riconciliazione degli ultimi anni nei Balcani mostrano come vogliamo percorrere la strada futura senza tornare indietro affinché l’Europa del XXI secolo sia terra di civiltà e del vivere insieme”.
Rimane fermo l’importante compito dell’inquadramento storico per uscire dalle sabbie mobili del passato, trasformando la tragedia in energia che rinnova e costruisce. Lo si legge nell’allocuzione del prof. Raoul Pupo, ordinario di Storia contemporanea all’Università di Trieste, nella quale si chiede:
“Che cos’è dunque che oggi ricordiamo? Le vittime, certo, di quegli anni così terribili; i fatti di cui parla la legge istitutiva della giornata,…ma al fondo, ciò che costituisce la sostanza del ricordo è un fenomeno che comprende vittime e fatti: è la parabola drammatica dell’italianità adriatica, vale a dire di quella forma della presenza italiana nell’Adriatico orientale che era cresciuta nel XIX secolo sulle fondamenta poderose della tradizione romana e veneziana e che si poneva come massima aspirazione, anzi, come unico possibile orizzonte di vita, lo stato nazionale”.
E a cosa serve il ricordo: due le risposte, una stretta, l’altra larga. “All’interno di quella visione larga – afferma Pupo -, noi vediamo subito che la parabola dell’italianità adriatica non si è svolta nel vuoto, ma si è intrecciata con un’altra traiettoria, quella dello slavismo. Le due identità si sono formate quasi simultaneamente e si sono definite in buona misura per differenza l’una dall’altra nel corso della seconda metà dell’Ottocento. Così, quella che prima era una società regionale di origini assai varie, caratterizzata da un notevole grado di plurilinguismo – anche se la lingua d’uso veneta risultava prevalente – una società che in alcuni ambiti, come Trieste, era francamente cosmopolita, anche se la cultura era in massima parte italiana, quella società si è divisa rapidamente lungo linee di frattura nazionali sempre meno permeabili. E’ un esempio classico di quei processi di nazionalizzazione di massa parallela e competitiva, che hanno caratterizzato la storia dell’Europa centrale fra la metà dell’Ottocento e quella del Novecento: una storia finita male, proprio in applicazione dei principi fondanti del nazionalismo, come l’intolleranza nei confronti dell’altro e la concezione perversa secondo la quale la terra che tutti ospita appartiene ad un solo popolo, mentre gli altri vengono considerati ospiti sgraditi, quando non invasori da cui liberarsi ad ogni costo, per via di assimilazione o di espulsione”.
E il dramma c’è stato, terribile, tragico “per proporzione e capacità distruttiva, per le dinamiche sprigionate dalla seconda guerra mondiale, che ha spostato in maniera radicale i confini del pensabile. E’ stata guerra totale, in cui i civili sono diventati obiettivo specifico di operazioni belliche. Sul fronte orientale è stata fin dall’inizio guerra senza regole, divenuta ben presto guerra di sterminio”.
Il resto è ciò che conosciamo e che ha posto la regione Giulia, che è sempre stata area di cerniera tra mondo mediterraneo e danubiano, “in pieno nelle logiche estreme dell’Europa orientale, nella storia cioè di quelle che Timoty Snyder ha chiamato le terre di sangue”.
Ha parlato poi delle contrapposizioni, quasi un botta e risposta dei regimi che si sono succeduti in queste terre. “Il fascismo si è impegnato a realizzare la bonifica etnica, ma quel che ha ottenuto, è stato di decapitare, impoverire ed umiliare le comunità slovene e croate che nella loro maggioranza sono rimaste salde sul territorio. Il regime di Tito invece ha proclamato la fratellanza italo-slava, ma gli italiani sono stati costretti ad andarsene al 90%”. Lo stesso metodo ma con risultati ben diversi.
Ma questa è una storia di molti anni fa. Da quella stagione terribile sono trascorse generazioni e sono mutati completamente gli assetti internazionali. “In Italia – conlude il prof. Pupo – la memoria del sacrificio dei giuliano-dalmati è stata in buona misura salvata ed ora le diverse memorie di frontiera cominciano a riconoscersi e rispettarsi, nella loro insopprimibile soggettività. Molti fra gli studiosi di confine, già araldi delle storia delle nazioni, parlano ormai di “sguardo congiunto” e sperimentano percorsi di storia post-nazionale. Le comunità italiane giuliano-dalmate in esilio e quelle che ancor vivono sulla loro terra di origine hanno avviato un dialogo sempre più intenso. Le istituzioni degli stati si sono spese al massimo livello per la riconciliazione fra i popoli. La prospettiva dell’integrazione europea è largamente condivisa”.
Che cosa si può fare?
“Si può cominciare una storia nuova – suggerisce Pupo -, non dimentica di quanto di positivo – e non è poco, in termini di cultura e di consuetudine civile – i secoli passati hanno prodotto. In questo senso, l’inizio di un millennio ancora incerto sulla direzione da prendere, propone una sfida di alto profilo: andar oltre la semplice tolleranza di gruppi minoritari in perenne affanno e far crescere invece i semi di diversità che ancora sopravvivono sulle rive adriatiche per ricostruire, se pur in misura assai più limitata che un tempo, un tessuto plurale, certo più adatto, rispetto all’esclusivismo nazionale, a reggere l’impatto della globalizzazione”.
Per suggellare riflessioni e speranze, la conclusione della cerimonia è stata demandata all’Orchestra d’archi del Conservatorio Giuseppe Tartini di Trieste. Diciotto giovanissimi, impegnati, entusiasti, rapiti dalla musica, che sulla scia dei concerti svoltisi in P.zza Unità a Trieste e all’Arena di Pola, propongono un altro strumento di dialogo, accanto a quello della storia e della politica, quello fondamentale della cultura che usa un metro universale di comprensione e supera i confini.
Rosanna Turcinovich Giuricin su www.arcipelagoadriatico.it
Il Presidente Napolitano saluta i rappresentanti delle Associazioni degli Esuli (foto Quirinale)