Alle ricorrenti accuse contro i Governi italiani e l’atteggiamento dell’Italia in generale tra il 1918 e il 1943, che provengono sia da alcuni ambienti sloveni e croati che da ambienti italiani che si basano su documentazioni raccolte dai governi della ex-Iugoslavia comunista, si può rispondere:
1) Tutte le accuse ripetono le tesi dei «Libri bianchi» che l’ex-governo iugoslavo presentò contro l’Italia durante le trattative per il trattato di pace del 1947 e successivamente per impedire l’ingresso dell’Italia nell’ONU e che furono riprese dal governo sloveno nel 1994, quando il governo di Roma chiese per la prima volta la restituzione dei beni espropriati agli italiani dell’Istria.
Tutte le volte questi « libri bianchi » furono rimandati al mittente dai governi alleati, che avevano già sottoposto a giudizio nell’immediato dopoguerra i militari italiani accusati di crimini puniti dalle convenzioni internazionali, senza che siano mai state emesse sentenze di condanna significative.
2) Purtroppo i libri di scuola sloveni e croati continuano a diffondere queste deformazioni della realtà storica (un po’ come nelle scuole dei paesi arabi si insegna ancora oggi che gli ebrei compiono sacrifici umani durante la festa del Kippur).
3) In primo luogo infatti l’Italia non ha «occupato» la Slovenia per oltre vent’anni, ma solo per due anni e cinque mesi (dall’aprile 1941 all’8 settembre 1943). Quella parte dell’attuale Slovenia la di qua delle Alpi, che era compresa nella vecchia Venezia Giulia, non fu « occupata », ma assegnata allo Stato italiano, liberale e non fascista, al termine della prima guerra mondiale con il Trattato di Rapallo del 1920, che era un regolare trattato internazionale riconosciuto da tutti gli Stati del mondo, Iugoslavia compresa. Ignorare il diritto internazionale significa giustificare qualsiasi rivendicazione territoriale con effetti destabilizzanti nei rapporti tra le nazioni.
4) Vero è che nella ex regione italiana della Venezia Giulia, tra il 1920 e il 1947, viveva una forte minoranza slovena e croata, specie nelle vallate alpine, nel Carso e nell’interno dell’Istria, inferiore comunque numericamente alla maggioranza italiana, che abitava nelle città piccole e grandi (da Trieste a Pola, a Parenzo, a Pisino, Gorizia, Capodistria, Pirano, ecc.), sulle coste istriane e nelle isole del Quarnaro.
Questa minoranza slovena e croata non ha subito nessun «genocidio», ma piuttosto un tentativo fallito di assimilazione linguistica (come nelle vallate dell’Alto Adige), tanto è vero che è rimasta esattamente dove era, mentre 350.000 italiani sono stati cacciati con il terrore delle foibe, la deportazione in massa e la persecuzione politica. Nelle province italiane della ex-Venezia Giulia durante tutto il ventennio fascista (1922-1943) furono eseguite dieci condanne capitali contro persone giudicate colpevoli di atti di terrorismo, con omicidi nelle sedi di giornali e stragi di contadini italiani e slavi durante una festa religiosa. Si trattava di elementi nazionalisti (e non antifascisti). Migliaia di sloveni per contro si arruolarono volontari nella Milizia fascista (M.V.S.N.) e si comportarono con onore sui vari fronti, dall’Africa Orientale fino alla II guerra mondiale.
5) Durante la seconda guerra mondiale le truppe italiane furono accolte a Lubiana e nella Slovenia di allora, al di là del vecchio confine alpino del 1920, con fiori e bandierine, come mostra la documentazione fotografica e cinematografica. Una parte dell’opinione pubblica slovena sperava infatti di ottenere l’indipendenza dalla Iugoslavia (conseguita poi nel 1991). Solo successivamente iniziò la resistenza anti-italiana e anti-tedesca, guidata dal partito comunista clandestino, alla quale non vollero mai associarsi i partiti antifascisti di ispirazione cattolica e liberale. Alle imboscate dei partigiani le truppe italiane risposero – come è stato riconosciuto da decenni dalla storiografia italiana – con rastrellamenti, deportazione di intere famiglie e villaggi sospettati di complicità con la resistenza e fucilazioni anche di civili ritenuti corresponsabili degli atti di ostilità, come si verifica purtroppo quando gli eserciti di occupazione si trovano a fronteggiare una guerriglia. Ma è opinione consolidata nella stessa storiografia slovena, croata e serba che la repressione italiana fu di gran lunga meno violenta e indiscriminata di quella tedesca, ungherese, rumena e bulgara nelle zone iugoslave occupate da quei Paesi dell’Asse. Sta di fatto che all’8 settembre la popolazione locale soccorse i militari italiani che si sottraevano alla prigionia tedesca aiutandoli a fuggire verso la Venezia Giulia. Ciò che prova che non esisteva un odio popolare contro i militari italiani.
6) Il fenomeno delle Foibe in Istria e nel Fiumano e degli eccidi in Dalmazia fu invece un tipico programma di «pulizia etnica», come è stato definito con chiarezza da esponenti del Governo e del Parlamento italiano di ogni tendenza e come ribadito con vigore dai Presidenti della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano in dichiarazioni ufficiali. Il programma fu condotto sotto le direttive provenienti dall’alto (tanto da essere riconosciuto dagli stessi storici sloveni come «violenza di Stato») ed era diretto a liberarsi della popolazione italiana autoctona che non accettava l’annessione iugoslava. Contemporaneamente le formazioni partigiane massacravano, nelle regioni della ex-Iugoslavia, centinaia di migliaia di croati e di sloveni che avevano combattuto contro di loro (Ustascia in Croazia, Domobrani e Belagardisti in Slovenia), nonchè di serbi che avevano militato nella resistenza non comunista (Cetnici). Il milione di morti iugoslavi attribuito alle truppe d’occupazione straniere è dovuto in gran parte ai massacri interni, commessi prima dagli Ustascia sulle popolazioni serbe delle Kraijne e della Bosnia e poi, nel maggio-giugno 1945 dalle divisioni partigiane comuniste, come viene oggi rivelato dagli storici croati e sloveni.