Commemorazioni, pubblicazioni, cerimonie, presentazioni di volumi e conferenze – talvolta supportate da validi contenuti mediatici – costellano le agende di enti pubblici e istituzioni culturali lungo tutto l’arco del nostro Paese dal Friuli alla Sardegna, in questi e nei prossimi giorni. Un contributo tra i più apprezzabili è quello offerto dai docenti delle scuole secondarie e dalle università: attivamente impegnati a sensibilizzare giovani e giovanissimi verso un elemento della nostra Storia contemporanea che non può più essere «semplicemente riconosciuto», ma deve divenire un fattore «acquisito come patrimonio comune» – giuste le considerazioni espresse da Gianni Letta in apertura alla cerimonia svoltasi il 10 febbraio alla presenza del Presidente della Repubblica, a Roma. Estremamente significative sono poi le occasioni che in queste settimane consentono ai testimoni di dare una voce e un volto al passato. Oggi che gli ultimi sopravvissuti vanno scomparendo è importante comprendere e affrontare il problema delle testimonianze: non è sufficiente utilizzarle come fonti a sfavore delle tesi negazioniste. Abbiamo infatti il compito di continuare la tradizione delle memoria attraverso la storiografia anche e innanzitutto prima della scomparsa dell’ultimo testimone.
Purtroppo non sono però mancati alcuni momenti che, come ogni anno, complicano il clima della Giornata, caricandolo di riferimenti politici più o meno attualizzanti. A Roma, per esempio, sono comparse scritte inneggianti all’eccidio delle Foibe e al dramma della dittatura comunista, all’Università degli Studi di Milano c’è stata netta opposizione tra gruppi studenteschi di diverso orientamento, mentre in centri più piccoli – come a Lecco – si sono segnalati episodi di vandalismo ai danni di lapidi o monumenti dedicati per l’appunto ai martiri delle Foibe, che vanno ad aggiungersi alle scritte razziste già apparse altrove in occasione del 27 gennaio. In questi contesti non c’è, evidentemente, una reale attenzione per i fatti trascorsi da appena mezzo secolo, al fine di renderli magari meglio comprensibili ai posteri. Prevalgono invece estreme semplificazioni volte in particolare a stabilire una gerarchia delle colpe, quando non soprattutto un confronto tra concezioni contrastanti ma ugualmente ideologiche della realtà storica. Non si possono attenuare i crimini delle dittature che – come quella fascista, nazista, comunista e titina – in nome di atti riconducibili ad azioni di guerra o meramente frutto di odio e vendetta ebbero quali comuni denominatori atrocità ed efferatezze inimmaginabili. Così facendo si offendono ancora una volta le vittime di quei sistemi e si finisce per prima cosa col dare ex post un deleterio credito a quegli stessi regimi per i quali lo stato di diritto e la democrazia sono i soli contravveleni possibili.