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12 feb – Il discorso di Enzo Bettiza al Quirinale

Enzo Bettiza, 10 febbraio 2001, Palazzo del Quirinale, celebrazione del Giorno del Ricordo

Signor Presidente, in questa sesta commemorazione del «Giorno del Ricordo», mi sembra doveroso sottolineare che Lei ha sempre posto nella luce giusta il riconoscimento di una storia tragica iniziata nell’autunno 1943, quindi seppellita in un lungo silenzio dal 1946 al 2006, anno della prima celebrazione inaugurata dal presidente Ciampi. Lei, al tempo stesso, ha sempre accompagnato la verità sul calvario degli italiani dell’Est con proposte e gesti di una strategia di riavvicinamento regionale ed europeo tra l’Italia e la Slovenia e la Croazia, emerse alla sovranità democratica dalla dissoluzione della Jugoslavia comunista.

Ecco perché la prima visita appena compiuta in Italia da un Capo di Stato della Repubblica slovena ha assunto un significato che, senza tema di retorica, vorrei definire storico. Il suo soggiorno ha completato a Roma quello spirito di ritrovata concordia, nel rispetto reciproco, che tutti abbiamo già avvertito nell’incontro di Trieste del luglio 2010 fra i tre Presidenti: l’italiano Giorgio Napolitano, lo sloveno Danilo Türk e il croato Ivo Josipovic. Non solo. Nei brindisi ufficiali con parole ben soppesate, in questo palazzo presidenziale, si è potuto avvertire qualcosa che andava al di là del semplice galateo diplomatico: vi si è percepita la volontà politica di entrambe le parti di chiudere, emblematicamente, quasi un secolo di storia travagliata. Riferendosi all’incontro triestino, Lei, signor Presidente, lo ha definito come un «momento magico» che ha rappresentato il rifiuto visibile di tre Paesi di restare ostaggi di un passato doloroso e lacerante.

Si trattò in effetti di un passato drammatico, tempestato di fatti atroci, in un’altalena di aggressioni e ritorsioni con connotati ideologici oltraggiosi d’ogni diritto umano. Nulla venne risparmiato alle popolazioni mischiate lungo l’implacata fascia di confine tra la Venezia Giulia e la Slovenia, mentre, più giù, Zara, rasa al suolo come Dresda da cinquantaquattro bombardamenti aerei, si vuoterà completamente fra il 1943 e il 1945 di tutti i suoi cittadini di lingua italiana. C’è stata in proposito, negli anni passati, una controversia diplomatica con la Croazia, innescata da una proposta intesa a conferire all’antico capoluogo dalmata la medaglia d’oro quale città martire italiana. La proposta era stata fatta da Ottavio Missoni, sindaco di Zara in esilio, nel già lontano 2002, quando nell’Unione Europea non era ancora presente nessun Paese dell’Est postcomunista. Dopo un recente scambio d’idee siamo giunti, Missoni ed io, alla conclusione teorica che oggi, in quest’Europa allargata e mutata, con la candidata Croazia prossima all’entrata nell’Unione, si potrebbe trovare il modo di attribuire concordemente un riconoscimento europeo alla popolazione zaratina per le sofferenze sopportate.

So che sto parlando di problemi delicati, ancora in parte scottanti, poiché risentono tuttora il peso di vicende che mettono radici profonde nei risvegli nazionali che gli italiani e anche gli slavi conobbero nel corso dell’Ottocento. Qui vorrei evocare l’incisivo contributo non solo culturale, ma politico, che un grande dalmata ed esule perenne, Niccolò Tommaseo, diede al Risorgimento italiano. (…) Il suo risorgimentalismo fu difatti ecumenico e a doppio taglio: vagheggiava un’unione delle genti balcaniche intorno alla giovane Serbia, contro l’Austria metternichiana e gli ultimi pascià e fanarioti ottomani. In tale fraternità di popoli ribelli all’oppressione dei vecchi imperi, assegnava alla Dalmazia, che sentiva da sempre come una patria incompiuta, il ruolo di mediatrice fra colta latinità occidentale e sanguigna slavità orientale.

La degenerazione nazionalistica dei moti unitari ottocenteschi doveva poi aggravarsi, durante la prima guerra mondiale, e prolungarsi dal 1919 in poi fino al secondo dopoguerra. Si vide l’aggressivo fascismo di frontiera crescere, a dismisura, nel solco dell’ambigua epopea dannunziana e irredentista di Fiume. Il terrore, l’odio muto, la paura della propria stessa identità anagrafica cominciarono a insediarsi, sotto la spinta di uno sciovinismo oltranzista, nei nuovi territori acquisiti dall’Italia sul confine orientale. (…) Il tutto culminò infine nella guerra e nell’occupazione militare con fucilazioni e rastrellamenti talora indiscriminati da Lubiana fino alle Bocche di Cattaro.

Dopodiché, saranno le comunità italiane a subire il terribile contraccolpo vendicativo delle dilaganti milizie jugoslave. Il partigiano Tito, ormai maresciallo di un esercito orgoglioso di aver sconfitto da solo gli invasori, pensava di poter infliggere all’Italia in ginocchio un’ampia sottrazione territoriale incorporando, insieme con l’Istria e Fiume, anche Trieste e la contigua area goriziana. Egli diede corso al piano di conquista con metodi prettamente bolscevichi: sterminio, persecuzione e fuga dei nativi italiani, pulizia etnica insomma, seguita da un capillare trapianto di nuove popolazioni. L’operazione di ricambio demografico, affidata materialmente alle avanguardie in parte politicizzate in parte brade dell’esercito titoista, ebbe per sfondo il caos finale della guerra, per teatro le principali città istriane più Trieste e Gorizia, e per poligono patibolare le voragini del Carso. Morirono nelle foibe migliaia di italiani, soprattutto istriani, ma anche diversi sloveni e croati considerati alla rinfusa «nazisti» o «collaborazionisti». Terrore e disperazione spinsero all’esodo di massa trecentocinquantamila profughi istriani, quarnerini e dalmati. Non tutti si fermavano a Trieste. Molti si dirigevano verso il Veneto e la Lombardia, dove, con la loro istruzione e l’innato spirito di disciplina, partecipavano all’opera di ricostruzione dell’Italia del dopoguerra. L’esperienza più amara doveva toccare agli esuli che, dispersi per altre regioni italiane, si videro qua e là trattati come intrusi o addirittura bollati come «fascisti». Ma la massima parte di quei fuggiaschi, scampati alla tortura, alla morte o al carcere, non avevano nulla di fascistoide nel comportamento sobrio e affidabile e nella mentalità mitteleuropea. Erano, più che altro, il residuo indifeso e spaesato di una lunga storia di soprusi e atrocità trasversali: storia confusa, piena di contrasti inestricabili, che li aveva travolti insieme col vicino di casa sloveno o croato, e che andava ricondotta a quella che, con neutro eufemismo accademico, la diplomazia fascista chiamava «la questione orientale».

Proprio tale «questione», produttrice di sciagure infinite tra stirpi confinanti, spesso consimili e bilingui in virtù di matrimoni misti, si è a mio parere simbolicamente estinta nel dialogo e nel lessico europeo fra i Presidenti italiano e sloveno. Non a caso Türk, terzo Presidente democratico di una nazione postcomunista che per prima ha adottato l’euro e per prima ha assunto nel 2008 la presidenza semestrale dell’Unione Europea, ha confidato ai giornalisti di aver proposto agli interlocutori italiani la costruzione di «un comune parco della pace» da Caporetto a Duino: è lì, su quella striscia di terra europea, insanguinata dalla prima guerra mondiale, che morirono circa un milione di europei, tra cui moltissimi italiani agli ordini di Cadorna e molti slavi agli ordini del feldmaresciallo von Borojevic d’origine croata.

Se il progetto di un memoriale dedicato al superamento del passato tra nazioni limitrofe dovesse, nel futuro, solo parzialmente realizzarsi, penso che il giorno che commemoriamo oggi acquisterebbe un simmetrico punto di riferimento storico. Sarebbe un modo traslato ma visibile di restituire alla nostra memoria, affinché il male non si ripeta più, il ricordo di tutti gli innocenti caduti, o assassinati fra le petraie del Carso, nelle trincee del ‘15-‘18 e nelle foibe del 1945.

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