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13 feb – L’intervento di Parlato in Campidoglio

Vi presentiamo il testo integrale dell'intervento del Prof. Giuseppe Parlato, storico di chiara fama e tra i più esperti delle vicende del confine orientale, tenuto in campidoglio il 10 febbraio, in occasione della celrimonia commemorativa curata dal Comune di Roma e dal Comitato ANVGD di Roma.

 

La giornata del ricordo, che oggi qui celebriamo, riguarda il sacrificio delle popolazioni della frontiera italiana orientale, che, dopo la seconda guerra mondiale dovettero abbandonare forzatamente le loro case per mantenere intatta la propria identità nazionale. Così come, a maggior ragione, questa giornata è dedicata a quanti persero la vita o furono deportati a causa dell’azione violenta e indiscriminata delle truppe comuniste di Tito. Per fortuna, soprattutto grazie alla costante e tenace azione delle organizzazioni degli esuli, il problema che riduttivamente viene spesso definito delle “foibe”, incomincia ad assumere una valenza nazionale e, ed è la cosa più importante, se ne parla finalmente nelle scuole. Gli imbarazzati distinguo di qualche anno fa sembrano essersi ridotti, i negatori del problema sono quasi scomparsi e comunque la loro marginalità scientifica li condanna a parlare a sempre più esigui e autoreferenziali circoli nostalgici della Jugoslavia che fu.

Ma questa giornata, quest’anno, si ricollega strettamente alla questione della celebrazione dei 150 anni della costituzione dello Stato unitario. Proprio rivolgendoci agli italiani della Dalmazia, dell’Istria, di Fiume e della Venezia Giulia, non possiamo utilizzare la formula, imprecisa ma corrente, dei “150 anni dell’Unità italiana”, perché proprio per quelle zone il 150° non ha senso dal punto di vista della raggiunta unità, perché per questa parte d’Italia la data va spostata al 1918.

Invece, il 150° della costituzione dello Stato italiano rappresenta una data che rientra perfettamente nella memoria storica delle terre orientali e dei loro abitanti.

Uno dei concetti più difficili da fare assimilare, soprattutto alle giovani generazioni, è che la questione della giornata del ricordo non riguarda soltanto il Novecento, quel Novecento di totalitarismi e di guerre i cui disastri sono sotto gli occhi di tutti, ma affonda le sue radici in un’epoca ben più lontana.

Se così non fosse, la storia di queste popolazioni, e il loro rapporto con l’Italia, sarebbe oltremodo recente. Invece, la loro storia è strettamente connessa  con la storia d’Italia e ne è strettamente connessa, ben prima della costituzione dello Stato unitario.

Sappiamo che l’idea di nazione italiana non nasce con il Risorgimento; sappiamo che nell’Ottocento nasce lo Stato, ma in Italia (e in Germania), a differenza di altri paesi europei come la Francia, la Spagna e l’Inghilterra, l’idea di nazione precede, non segue quella di Stato. Fra il 1100 e il 1300 infatti si costituiscono gli stati assoluti moderni, che con i secoli diventano, all’epoca della Rivoluzione francese, stati nazionali.

In Italia invece la nazione nasce prima ed è una nazione essenzialmente letteraria, fondata sulla cultura e sulla capacità di realizzare quel primato culturale, scientifico e commerciale nell’Europa di allora e anche al di là dei confini europei.

Di questa nazione culturale, gli abitanti delle terre orientali hanno partecipato in misura assolutamente rilevante. Possiamo partire dal periodo romano, ma, più recentemente, tale italianità si chiama soprattutto Repubblica di Venezia. La Serenissima riuscì a diffondere idioma, costumi, a creare una classe dirigente, a sviluppare commerci, stabilendo un collegamento ideale e storico fra la classicità di Roma e la modernità politica e imprenditoriale fino a tutto il Settecento.

E’ del 1797 il progetto del Ranza di una Federazione Italiana: in quel progetto si prevedeva una Repubblica dell’Adria, quarta fra gli stati federati d’Italia, che doveva comprendere la Regione Giulia, l’Istria e la Dalmazia.

Risale comunque al 1805 il primo inserimento di queste terre orientali in un embrione di Stato ufficialmente italiano: era il Regno d’Italia costituito dal Bonaparte nel marzo di quell’anno e allargato a dicembre, dopo la pace di Presburgo, all’Istria, alla Dalmazia e a Fiume. Cinque anni dopo, quei territori andavano a fare parte delle Province Illiriche, incaricate di costituire un baluardo al mondo tedesco e slavo per difendere l’Italia.

Dopo la Restaurazione e il passaggio di tutti questi territori all’Austria, il sentimento di nostalgia verso il passato veneziano si unì al primo sorgere delle idealità liberali, soprattutto presso una borghesia produttiva e intellettuale che sottolineò la propria identità sociale opponendosi a un’aristocrazia generalmente fedele all’Imperatore e alle masse rurali obbedienti al clero sloveno e croato. Si costituirono così nelle città le prime società segrete – tra il 1820 e il 1840 – con alcuni contatti con il mondo settario italiano: non furono estranei alla mobilitazione politica di queste associazioni gli sviluppi dell’indipendenza della Grecia dal potere ottomano, a conferma che il processo di identità nazionale stava assumendo caratteristiche europee e che soprattutto il principio di nazionalità nasceva rispettoso delle altrui nazionalità. Alla società Esperia, ad esempio, si iscrissero diversi ufficiali della marina austriaca di origine veneta, dalmata o istriana, come i fratelli Bandiera, la cui madre era di origina dalmata.

Ma fu con il 1848, ed esattamente alla notizia dell’insurrezione di Venezia, il 22 marzo, e alla conseguente proclamazione della Repubblica di San Marco, che si fecero più evidenti i segnali di una mobilitazione popolare in senso nazionale: le popolazioni delle città costiere, Zara in testa, scesero in strada mentre le case esponevano il tricolore. Consistente fu poi la partecipazione degli istriani e dei dalmati alla prima guerra d’indipendenza, con centinaia di volontari a combattere con l’esercito piemontese, a difendere le repubbliche di Venezia e romana. Nicolò Tommaseo corse in aiuto di Manin a Venezia, dove si formò una Legione Dalmato-Istriana; in Ungheria, i coscritti fiumani nell’esercito ungherese costituirono una Legione fiumana che combatté con gli insorti magiari. A Zara la gente acclamò Carlo Alberto, Pio IX e la Costituzione, mentre si costituiva una Guardia Nazionale che adottava come simbolo il Tricolore.

Il movimento nazionale e liberale nell’Impero, se da un lato determinò una progressiva emarginazione dell’elemento italiano a favore di quello sloveno e croato, ritenuto dalla duplice monarchia più affidabile, dall’altro costrinse il governo austriaco a varare una politica di riforme, la più significativa delle quali riguardò il sistema feudale dell’Impero, che fu abolito soltanto nel 1862.

In ogni caso, nelle province adriatiche, l’elemento italiano progressivamente perdette potere e fu sottoposto a stretto controllo dalla polizia: tuttavia ciò non arrestò il diffondersi del sentimento nazionale, sia tra gli imprenditori e gli intellettuali, ma anche presso l’ambiente piccolo borghese e popolare, esaltato dal messaggio mazziniano e soprattutto da quello garibaldino, al cui richiamo si verificò un notevole afflusso di volontari istriani, fiumani e dalmati nell’esercito piemontese e tra le camicie rosse: molti di costoro si stabilirono definitivamente in Italia.

Nel ’59, durante la seconda guerra d’indipendenza, le popolazioni adriatiche si illusero con la breve occupazione franco-sarda delle isole di Cherso e Lussino: la popolazione scese in strada e nei palazzi si innalzò il tricolore. Anche a Zara, Sebenico e Spalato gli italiani si organizzarono per attendere in armi un possibile sbarco sardo che però non si verificò.

Ma fu la proclamazione del Regno d’Italia ad essere salutata con particolare partecipazione, preludio a una estensione del regno verso oriente.

La costituzione dello Stato italiano diede luogo a contrastanti situazioni. Da un lato accese gli animi degli italiani dell’Adriatico orientale, sviluppando ancora di più i sentimenti antiaustriaci; dall’altro il principio nazionale cominciò ad estendersi anche presso l’elemento slavo, il quale restava  sempre legittimista ma incominciava a manifestare interesse verso una propria identità etnica prima che nazionale. A questo sentimento non erano stati estranei alcuni stimoli che erano venuti proprio dall’Italia e dalla sua cultura. Sicuramente le considerazioni di Mazzini sulla necessità che anche gli slavi procedessero alla creazione di una identità nazionale, nell’ambito di quella “Giovane Europa” che costituiva, per Mazzini, il futuro politico del continente: la solidarietà delle nazionalità oppresse contro gli stati assoluti negatori delle libertà. Anche Cavour, che aveva mantenuto negli anni un costante interesse strategico e affettivo per Trieste, sosteneva che sarebbe stato di grande aiuto per l’Italia una evoluzione in senso nazionale dei popoli slavi, evidentemente in funzione antiaustriaca.

E per la prima volta, la Dieta istriana, quella di Fiume e quella dalmata risponderanno negativamente alla richiesta di una loro partecipazione alle rispettive diete provinciali: un segnale significativo che sapeva di aperta rottura con un potere centrale che, fino a pochi anni prima, era comunque considerato rispettoso delle autonomie. In questo senso, la scelta autonomista risultò vincente a Fiume e anche in Istria; non lo fu in Dalmazia e ciò significò una ulteriore perdita di potere dell’elemento italiano.

Le speranze degli italiani dell’Adriatico orientale furono frustrate nel 1866, in occasione della terza guerra di indipendenza, che vide la sconfitta nella battaglia di Lissa, in luogo del tanto atteso sbarco di Garibaldi in Dalmazia. Con il 1866 si ebbe il Veneto, ma la situazione diplomatica italiana successiva alla guerra compromise quasi del tutto lo sviluppo del movimento nazionale in quelle terre. La firma della Triplice Alleanza con Germania e Austria una decina d’anni dopo, riconfermata fino alla prima guerra mondiale, impedì l’appoggio del governo italiano alle istanze autonomistiche delle province orientali.

Nacque così l’irredentismo. La politica austriaca, sempre più apertamente filoslava, accentuò di fatto il già precario rapporto tra italiani, sloveni e croati. Nell’Adriatico orientale, dalla fine del secolo, incominciò ad operare la Società Dante Alighieri, che se ufficialmente tutelava l’identità culturale e linguistica italiana, in realtà in Istria, a Fiume e in Dalmazia svolgeva opera di sensibilizzazione alla politica nazionale. Prima della Dante, a Trieste era nata la Lega Nazionale, importante punto di riferimento dell’irredentismo.

Contemporaneamente, a Trieste, in Istria e in Dalmazia nascevano giornali, riviste, associazioni finalizzati alla difesa dell’identità culturale italiana, a conferma che la nostra presenza nazionale era soprattutto culturale. Si pensi alla rivista “Istria” diretta dallo storico Pietro Kandler, all’”Archeografo Triestino” di Domenico Rossetti, all’istriano Antonio Madonizza, fondatore de “La Favilla”  e l’altro istriano Carlo De Franceschi, magistrato e storico, e ancora Carlo Combi, Tomaso Luciani e Graziadio Isaia Ascoli, grande studioso dei dialetti.

I vari tentativi insurrezionali, da quelli mazziniani verso il Trentino a quelli garibaldini verso Trieste, non produssero altro esito se non quello di irrigidire ancora di più le autorità austriache contro l’elemento italiano, raggiungendo forme di autentica persecuzione. Il caso di Oberdan fu indicativo di un clima che diventava sempre più insopportabile per gli italiani.

Nonostante tutto, però, almeno fino alla grande guerra, l’irredentismo italiano si mantenne ancorato (e il caso Oberdan lo conferma) alla concezione nazionalitaria e non nazionalistica dell’insegnamento mazziniano. Ogni tentativo di interpretare le caratteristiche di questo irredentismo (che, ricordiamolo, era democratico con venature socialisteggianti) come preludio a posizioni imperialiste o, addirittura, razziste, è destituito di ogni validità storica.

A pochi metri dal Campidoglio, sui bianchi marmi dell’Altare della Patria, campeggiano quattro parole: Patriae unitati e Civium libertati. Si tratta del senso profondo dell’identità nazionale italiana e dell’identità politica e culturale rivendicata dalle province orientali. Il nesso nazione-libertà è il nesso risorgimentale ed è il presupposto dell’italianità di quelle popolazioni. La libertà dei cittadini istriani, dalmati, giuliani e fiumani è stata la molla per la quale essi hanno deciso di passare dalla semplice difesa della propria identità culturale all’irredentismo. Lo Statuto, che il Regno di Sardegna, unico fra gli Stati italiani, volle mantenere anche dopo la sconfitta di Novara, divenne il punto di riferimento di popolazioni che volevano vivere in uno Stato di diritto, mentre l’Austria aveva ancora le caratteristiche dell’assolutismo. Abituati da secoli a vivere sotto una struttura statuale straniera, non si sarebbero ribellati all’Austria se essa avesse mantenuto i patti e avesse tutelato come nel passato il diritto alla cultura italiana, alla lingua, ai costumi: in una parola, alla propria identità.

L’elemento nazionale diventava una cosa sola con la certezza del diritto, con la modernizzazione delle strutture istituzionali, con la rappresentanza politica, con migliori condizioni di vita. L’Italia, in altri termini era il futuro e queste popolazioni, alla vigilia della prima guerra mondiale vollero l’unione all’Italia anche per quello che il governo di Roma rappresentava in Europa.

Da questo punto di vista, il parallelo con quanto è accaduto fra il 1943 e il 1954, e cioè le varie ondate dell’esodo, segnate dalla caccia all’italiano, è abbastanza evidente. La persecuzione contro l’elemento italiano, la fine delle libertà civili, il divieto di manifestare apertamente il proprio e tradizionale culto religioso, la paura di vedere intaccata nella proprietà il sacrificio e l’intelligenza di generazioni, indusse gli italiani dell’Istria, di Fiume, della Dalmazia ad abbandonare i propri focolari per restare italiani. Anche a costo di scegliere come patria adottiva un altro paese che non fosse l’Italia.

Un elemento questo che dimostra, ove ce ne fosse ancora bisogno, che la nazione, in particolare quella italiana, può sussistere anche se non vi è un territorio; non è fondato, questo spirito nazionale, sul sangue e sul territorio, come altri nazionalismi, in particolare balcanici o nord europei.

La nazione si esprime attraverso la cultura, la lingua, l’arte, la religione, lo spirito. E nel caso delle donne e degli uomini cui è dedicata questa Giornata del ricordo, anche, e forse soprattutto, attraverso  il sacrificio, il dolore, la memoria.

Giuseppe Parlato

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