da Il Piccolo del 13 luglio 2010
Un gesto, quello dei Presidenti, che può produrre poi effetti duraturi e diminuire – forse anche impercettibilmente – il senso residuo di separatezza tra ”noi” e gli ”altri” e la paura subconscia che viene dal passato.
Sulla vicinanza italo-slovena hanno scritto in tanti e bene. Ma questa capacità di riflessione non transita del tutto nell’opinione pubblica, permangono ragnatele e vincoli fatti da stereotipi negativi, da luoghi comuni del passato. Succede molto spesso tra vicini di casa. E del resto, non è nemmeno una specificità di questo nostro pezzo di confine, di questa nostra terra condivisa. Un polacco, sostengono gli ex dissidenti di Solidarnosc, sarà ancora per generazioni anti-russo e filo-americano, perché gli Usa hanno rappresentato nel periodo comunista l’agognata sponda della libertà. La Georgia odia la Russia, nonostante una convivenza di oltre due secoli, e le attribuisce tutti i mali del suo essere. L’Ira e l’Eta detestano i due Stati in cui i loro membri vivono.
Tra la Francia e la Germania esiste invece un rapporto pragmatico, che non significa amore, ma la comprensione delle difficoltà del prossimo quando vive una fase difficile. È probabilmente questo il rapporto che si dovrebbe coltivare dalle nostre parti. Per i politici-poeti o per coloro che predicano la salvezza come se dipendesse solo dall’Unione europea, anche quando a provocare dissidi e guai siamo noi, è consigliabile che cambino mestiere.
I ricordi e la storia vanno coltivati, anche studiati, ma senza l’ottica aberrante del soldato giapponese, che ancora non ha compreso come la Seconda guerra mondiale sia terminata da un pezzo e non vi sia alcuna rivincita da pretendere.
Ho ascoltato tempo fa l’onorevole Lucio Toth e mi ha scosso il suo desiderio, esposto più volte, di conoscere il luogo dove sono sepolti i suoi parenti, uccisi nel ’45. Desiderio umanissimo e comprensibile, cui la pietà prima ancora che la politica dovrebbe dare risposta. Non credo siamo distanti da questo orizzonte. Non credo che i cultori del ricordo fine a se stesso potranno ancora tenere in scacco la storia e il futuro.
Molto si è scritto su questi problemi nella relazione della Commissione storico-culturale italo-slovena, che ha concluso i suoi lavori proprio nel luglio di dieci anni fa. Una tale commissione non si nomina da sola, ma è stata costituita ufficialmente dai due governi, con l’approvazione delle più alte cariche dello Stato. Potremmo chiederci, allora, come mai il documento finale non sia stato diffuso e reso patrimonio comune, posto che faceva il punto su una delle situazioni più controverse ed era firmato dai migliori storici e studiosi dei due Paesi. Osservo che quel documento è stato sorprendentemente firmato da tutti i membri della commissione, mentre molti si attendevano una doppia relazione, una di maggioranza e un’altra di minoranza. Sembrava infatti impossibile il consenso che si è creato al termine dei lavori.
Il merito primo di quel documento è di avere messo nel contesto gli eventi; senza il contesto si può fare il tifo, si può avere una visione ma non ”capire”. L’esame di quella stagione, per chi non sia animato da una lettura a priori degli eventi, disegna un percorso tortuoso in cui è difficile se non impossibile tracciare linee nette.
A distanza di tanti decenni, ben comprendendo il senso e il valore della fierezza nazionale, forse è giunto il tempo anche per le nostre genti e i nostri territori di entrare nella ”normale” dialettica europea. Anzi, è giunto il tempo di comprendere che siamo parte di un concerto, dove ciascuno suona la sua parte. In pace. Ce lo ha insegnato, con l’offerta del suo concerto, il maestro Riccardo Muti.
Demetrio Volcic