di ALESSANDRO MEZZENA LONA su Il Piccolo del 13 maggio 2010
Non gli bastavano le spiegazioni affastellate da tanti storici per spiegare l’orrore delle foibe. Non era più disposto a cincischiarsi con cifre imprecise, testimonianze parziali, spiegazioni riduttive. In quella tragedia che aveva coinvolto Trieste, ma anche Gorizia, Pola, Fiume, Elio Apih leggeva un vuoto metafisico assoluto. Vedeva una delle incarnazioni del Male da incastonare in quel mosaico di efferatezze che è stato il Ventesimo secolo.
Così, tra gli anni ’90 e l’inizio del Duemila, Apih, uno dei più lucidi e onesti storici triestini e italiani, s’è messo a scrivere un testo rimasto purtroppo incompiuto. Esce adesso, a cinque anni dalla sua morte, con il titolo ”Le foibe giuliane”, pubblicato dalla Leg-Libreria Editrice Goriziana (pagg. 159, euro 18). È curato da Roberto Spazzali, che ha aggiunto al testo una corposa e indispensabile raffica di note e una bella postfazione, da Marina Cattaruzza e Orietta Moscarda Oblak. Del libro si parlerà nell’ambito del Festival èStoria in un incontro che si terrà domenica 23 maggio, alle 18, a Gorizia.
Un libro di grande forza, coraggioso. Un testo decisamente ”eretico”. Una prospettiva di studio del tutto nuova sul tema delle foibe, come spiega Marina Cattaruzza, triestina, ordinaria di Storia contemporanea generale all’Università di Berna, che ha scritto saggi importanti come ”Socialismo adriatico”, ”Il processo di Norimberga”, ”L’Italia e il confine orientale”, vincitore del Premio Piemonte Storia 2008.
«Una copia del manoscritto mi è stata consegnata dalla figlia di Apih, Gabriella, qualche tempo dopo la morte di suo padre – dice Marina Cattaruzza -. Credo che la gestazione del testo sia stata piuttosto lunga. Senz’altro, l’occasione immediata che ha dato origine al desiderio di scrivere è stata la partecipazione dello storico alla Commissione mista italo-slovena. Ma non si può affermare che poi, nel prosieguo della sua riflessione, avesse intenzione di far confluire questo suo testo tra i documenti della Commissione stessa, che ha concluso i lavori nel Duemila».
Sapeva che stava elaborando questo testo?
«No, non me ne aveva parlato. Anzi, negli ultimi anni si percepiva il suo distacco da qualsiasi tipo di attività storiografica. E questo atteggiamento lo si può riscontrare anche leggendo tra le righe delle ”Foibe giuliane”».
È un lavoro incompiuto…
«E si vede. Apih non è riuscito a concluderlo, a rivederlo. Però è un testo ugualmente affascinante che possiamo considerare come una sorta di bilancio conclusivo dell’attività storiografica di Apih. E anche una revisione rispetto al significato che, in altri stagioni, aveva dato al suo impegno storiografico e civile. È un continuo dialogo con se stesso, nell’intento di fare chiarezza fino in fondo».
Una lettura che potremmo definire ”eretica”?
«Apih disponeva, nella fase di scrittura che si è protratta dagli anni Novanta fin oltre il Duemila, di una base documentaria più ridotta rispetto a quella a cui possono attingere oggi gli storici. Eppure, il suo testo impressiona per la profondità delle intuizioni. Credo che sul piano interpretativo nessuno sia andato oltre queste riflessioni. Stupisce anche la molteplicità dei piani d’analisi».
Non si è fermato alla pura ricerca storica?
«No, nel libro si sovrappongono un piano di analisi metastorica, una profonda riflessione filosofica sul Male che “limita l’agire umano”. Non bisogna trascurare nemmeno gli approfondimenti di tipo antropologico, quando l’autore mette a fuoco, ad esempio, l’uso di gettare nelle foibe, insieme alle vittime, dei cani, per lo più neri. Rifacendosi a una vecchia superstizione che esorcizzava, con questo rituale, la colpa commessa».
Apih alza spesso gli occhi oltre l’orizzonte…
«Sì, importantissime sono le citazioni di alcuni massacri di tedeschi in Polonia, dove possiamo ritrovare dei particolari, dei rituali simili a quelli usati per le foibe».
Questi rimandi a massacri anche lontani gli permettono di ampliare il discorso sulle tecniche di annientamento.
«Per lui, le foibe sono in primo luogo il prodotto della tecnica rivoluzionaria. In un passaggio del libro fa riferimento a massacri molto più ”moderni”, come quelli messi a segno negli anni Settanta dal dittatore cambogiano Pol Pot, o come l’operazione di annientamento totale degli oppositori che i nazisti chiamarono ”Nacht und Nebel”, notte e nebbia. Apih parla di ”sparizione come annientamento totale”».
C’è un attenzione assoluta anche per i particolari.
«Apih si chiede, ad esempio, quando venga introdotta la pratica di legare le mani dei prigionieri con il filo di ferro, oppure quella del colpo alla nuca. Ha ben presente il massacro di più di 20mila ufficiali polacchi da parte dei sovietici a Katyn e nei dintorni, come pure le uccisioni a Kocevje di diverse decine di migliaia di collaborazionisti da parte dei partigiani jugoslavi».
Un viaggio negli orrori del ’900, non più uno sguardo isolato al dramma delle foibe?
«No, Apih dice chiaramente che non c’è più spazio per la teoria giustificazionista. Non crede a chi parla di una reazione alle violenze dei fascisti e dei nazisti. Non crede nemmeno alla colpevolezza di un gruppo limitato, alle delazioni di qualche singolo malvagio. Per lui le foibe sono un crimine organizzato, opera del movimento partigiano e, come giä accennato, una delle incarnazioni del Male del Ventesimo secolo. Non a caso definisce le guerre del ’900 civili e totali».
Che cosa intende con ”civili” e ”totali”?
«Vuol dire che le guerre del Ventesimo secolo sono state dettate da forti scontri di ideologie e, al tempo stesso, hanno coinvolto totalmente la popolazione civile. L’annientamento dell’avversario, sia pure potenziale, si inserisce così perfettamente in questo quadro».
Cita Bertolt Brecht perché rifiuta totalmente le tesi giustificazioniste?
«Quando Apih cita la famosa frase di Brecht, ”Noi che lottavamo per l’umanità non potemmo essere umani. Ma voi, se verrà un giorno in cui l’uomo aiuti l’uomo, a noi pensate con riconoscenza”, lo fa in modo critico, proprio per sottolineare la sua lontananza da tutti quelli storici o intellettuali che hanno provato a giustificare gli orrori del ’900. Ma c’è un altro aspetto interessante: uno dei temi che lo impegnavano maggiormente, negli ultimi anni, era l’elaborazione di un giudizio storico sul comunismo».
Riteneva che si dovesse studiare con più coraggio?
«Riteneva che ogni fenomeno storico potesse essere compreso solo una volta tramontato. Ed era convinto che sul comunismo, gli storici non avessero ancora fatto abbastanza, nonostante la caduta del Muro di Berlino. Nonostante la fine del blocco sovietico e la dissoluzione del comunismo stesso».
Nelle prime righe del testo, Apih cita Werfel, Nietzsche: il fascino dell’abisso…
«E fin dall’inizio di questa sua riflessione dà voce al suo disincanto rispetto alla concezione storicista. Non c’è più alcun elemento di dialettica o di superamento del Male attraverso la Storia. La concezione storicista resta valida fino a quando si può basare su un’idea di progresso».
E il ”secolo breve” ha messo in dubbio l’idea di progresso…
«Apih ne era profondamente convinto. E da qui derivava la sua disillusione nei confronti dello storicismo. Del resto, lo aveva già detto in precedenza».
Quando?
«Nel 1997, quando in una breve nota al catalogo abbinato a una mostra di disegni del pittore Anton Zoran Music, sopravvissuto a Dachau, scriveva: ”Il mutamento (progresso o no che sia) esige la continua, assurda e dolorosa autofagia dell’essere, processo immane chiamato storia”. Una riflessione difficile per uno storico, direi tragica, anche se di grandissima onestà».
Però non lo abbandonava la voglia di scrivere, di argomentare…
«No, so che negli ultimi anni stava pensando a una riflessione sul rapporto tra etica e politica. Poi, con una delle sue battute folgoranti, mi ha confessato: ”Sono arrivato alla conclusione che etica e politica non abbiano nulla a che fare l’una con l’altra”».