di Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera del 12 maggio 2010
La valigetta della piccola Elga, la bambina con l’ombrellino di quella che è la foto simbolo dell’esodo degli italiani dall’Istria, dal Quarnero, dalla Dalmazia, quella valigetta con scritto sopra «esule giuliana», chissà dov’è finita. Ma un po’ alla volta almeno una parte dell’immensa catasta di masserizie dei profughi venuti via in tutta fretta nei primi anni del dopoguerra, a ondate, dalle terre che per secoli erano state veneziane, è stata sottratta finalmente all’oblio, alla polvere, all’incuria in cui erano stati abbandonati suppellettili e sedie, credenze e comodini, vestiti e giocattoli in un magazzino del Punto Franco Vecchio di Trieste.
Una parte degli oggetti è stata trasferita nel museo del Centro raccolta profughi di Padriciano, sulla strada provinciale che da Opicina porta a Basovizza, l’unico allestimento espositivo italiano in un’area a conservare pressoché intatta la struttura originaria che a suo tempo ospitò molti esuli in baracche senza riscaldamento e acqua corrente (tra le foto che tolgono il fiato c’è quella di Marinella, una neonata che morì di freddo nell’inverno 1956) ricoperte e isolate con lastre in amianto-cemento. Un’altra parte è stata portata da Piero Del Bello, il direttore dell’Irci, l’istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata, al nuovo museo civico della Civiltà istriana, nel cuore della città, aperto in occasione della Giornata del ricordo e destinato a diventare, una volta rifinito nei dettagli, il punto di riferimento di un mondo che per troppo tempo ha aspettato di avere uno spazio, un riconoscimento, un sacrario. C’è di tutto, nel museo. Ma le cose che più toccano il cuore sono i giocattoli, le bambole, le ciabattine. C’è anche un «balighetto». Una specie di bustina di cuoio che in Istria era usata dalle levatrici per riporvi la placenta dei neonati «nati con la camicia» e che veniva appesa al collo dei bambini nella convinzione che li avrebbe protetti dagli spiriti negativi.
Resta una domanda: e tutti quegli altri duemila metri cubi di masserizie che i nostri esuli si portarono via dalle loro case dopo essere stati costretti ad andarsene? Ogni singolo tegamino, ogni singola foto, ogni singolo scialle, ogni singola matita rappresentavano, per quegli esuli che sapevano come la sorte avesse deciso che mai più sarebbero tornati ad Albona o a Sebenico, a Portole o a Zara, molto più del loro valore materiale. Erano reliquie. E forse ha ragione Piero Del Bello, l’uomo che del magazzino ha le chiavi. Forse non ha senso, a distanza di mezzo secolo e più, recuperare ed esporre tutto quanto. Tolti i pezzi più significativi, meglio lasciare tutto così. Nel deposito. Potrebbe essere quello, in fondo, il migliore degli allestimenti museali: una catasta enorme di oggetti buttati là alla rinfusa. Il panorama che lascia un cataclisma dopo avere annientato tutto.