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14 set – Omaggio a D’Annunzio (parte III)

di Claudio Antonelli, istriano residente in Canada

PARTE III

Anni dopo quel primo conflitto mondiale, un giovane padre nato nel 1907 a Trieste, ma vissuto a Pisino fino al compimento degli studi liceali, Mario Granbassi, giornalista al Piccolo di Trieste, partì volontario per la Spagna per combattere a fianco delle forze franchiste. Lasciò a Trieste la giovane sposa e i due figlioletti. Il diario che tenne nel periodo di guerra rivela la sua straordinaria elevatezza d’animo, la sua profonda umanità, e un grande coraggio che sfociò in diverse occasioni in puro eroismo. Egli era animato da una grande fede: la fede nell’Italia – l’Italia fascista. Mi rendo conto di pronunciare, oggi, un anatema. Ma non era certo un anatema per la nostra gente di confine. Per i Giuliano-Dalmati l’italianità era un valore indiscutibile, e tra italianità e fascismo per moltissimi di loro, allora, vi era semplicemente identità.

Granbassi analizza nel diario i motivi profondi della sua scelta: « Ho fatto degli esami di coscienza profondi e sono ormai sicuro di non mentire a me stesso: l’intima soddisfazione di aver compiuto duramente questo mio dovere è una ricompensa che supera ogni altra. » E ancora: «  La mia coscienza mi ripete: Qui [in Spagna] non sei venuto a cercare nulla che non sia ideale, perché di altro non avevi bisogno!  »

Il giovane giornalista del Piccolo – nato in una straordinaria famiglia di spiriti superiori, come mi testimoniò mia madre e come ho potuto constatare io stesso attraverso la conoscenza dei suoi due fratelli, Manlio e Guido, oggi scomparsi – non tornò più nella sua amata Italia: trovò la morte in un’azione di guerra. Morì eroicamente. Morì in quella maniera che è stata consacrata da una lunga serie di film esaltanti l’eroe puro della guerra spagnola; ma – bisogna precisare – sempre l’eroe del fronte opposto. Nel manicheismo instaurato dai vincitori della seconda guerra mondiale, il suo anticomunismo gli fa oggi meritare, ipso facto, il marchio dell’errore e persino dell’obbrobrio. Quel marchio che gran parte della nostra gente si è portata appresso – nobilmente – per tanti anni.

Nel 1940 gli furono decretate alla memoria, dallo stato italiano e da quello spagnolo, le due massime ricompense al valor militare. La motivazione della medaglia d’oro italiana fu: « Comandante del plotone arditi di battaglione, si lanciava audacemente contro una munitissima posizione nemica che, con nutrito fuoco, causava forti perdite al suo battaglione, riuscendo, dopo aspro combattimento a corpo a corpo, a scacciarne l’avversario. Ferito si faceva medicare sommariamente. Ripreso il comando dei suoi arditi, si gettava ancora, con suprema audacia, nella lotta finché, investito da una raffica di mitragliatrice, cadeva colpito a morte. Prima di spirare inneggiava all’Italia, incitando i suoi uomini a continuare la lotta e a non preoccuparsi della sua persona. »

Nell’agosto del ’45, per decreto di Palmiro Togliatti, allora ministro della giustizia, fu revocata la medaglia d'oro alla memoria di Mario Granbassi, e furono revocate le medaglie di altri trentuno caduti. Era quello stesso Togliatti che durante il secondo conflitto mondiale si era schierato contro gli Italiani a favore degli Jugoslavi, e che il 19 ottobre 1944 inviava a Vincenzo Bianco, rappresentante del PCI presso il Partito comunista jugoslavo, delle istruzioni in cui si legge: « Noi consideriamo come un fatto positivo, di cui dobbiamo rallegrarci e che in tutti i modi dobbiamo favorire, la occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del maresciallo Tito. »

Ha commentato Ernesto Galli della Loggia nel suo libro, dal titolo quanto mai significativo, “La morte della patria”: « […] dal Partito comunista non vennero altro, a proposito del confine orientale, che indicazioni pubbliche e prese di posizione di inequivocabile contenuto ‘antitaliano’ ». Galli della Loggia specifica: « Adopero il termine ‘antitaliano’ essendo pienamente consapevole non solo del forte significato che in quanto tale esso possiede, ma anche dell’uso spesso strumentale che di esso è stato fatto dalla più faziosa propaganda anticomunista. »

Anche per Togliatti la patria era meritevole di espressioni d’amore retoriche. Togliatti credeva, infatti, alla patria, ma non a quella italiana. E le espressioni che d’Annunzio rivolse all’Italia, il Migliore le tributò, nei fatti, all’Unione Sovietica, sua vera patria, nonché al mitico proletariato, a parole “liberato” e in realtà tenuto in catene dalle nuove classi dominanti, l'infausta nomenklatura.

Vi dicevo che d’Annunzio venne a Pisino, mia cittadina natale. Vi giunse il 16 maggio del 1902. Sono trascorsi, da allora, più di un secolo.  La “Famiglia pisinota” ovvero il Libero comune di Pisino che in esilio raggruppa i superstiti di quel lontano esodo dalla nostra amatissima piccola patria, scomparsa per sempre, ha permesso alla professoressa Nerina Feresini, amorosa custode di memorie per noi irrinunciabili, di pubblicare nel 1971 un volumetto che ricorda la visita del poeta pescarese a Pisino, nel lontano 16 maggio 1902, e l’impatto ch’egli ebbe sulla nostra gente.

Pisino, che come tutta l’Istria faceva parte dell’Austria, era una località con una situazione politica meno tranquilla rispetto alle località costiere dell’Istria, perché lì la nostra gente conduceva una lotta più tenace di italianità. L’accoglienza che il Vate ebbe fu meravigliosa. Lo scrittore Silvio Benco scrisse così sull’“Indipendente” : « Tutte le donne, da tutte le finestre, gettavano fiori sul poeta che visitava la loro città. D’Annunzio era in Pisino l’orgoglio della stirpe, che ivi sostiene strenuamente la sua lotta, era il segno eccelso al quale le armi dei negatori d’italianità non possono giungere, era la personificazione gloriosa di una razza, alla quale gli avversari nazionali non possono contrapporre che i loro politicanti chiercuti e i loro avvocatuzzi oscuri. Pisino seppe conservare mirabilmente nel suo tripudio i limiti del vero ; non insolenti contro alcuno ; fu paga di mostrarsi qual è, di potersi mostrare qual è ad un insigne araldo del genio di nostra stirpe ; città italiana, che italianamente sente, che italianamente vive, che italianamente lotta. » Ed ancora : « Il poeta aveva ascoltato e detto parole italiane in tutte le belle città del mare, dopo aver appassionatamente amato i luminosi orizzonti e la verde campagna istriana, che gli ricordava i paesaggi dell’altra sponda ; ora il convoglio lo portò ad ascoltare e a dire parole italiane laddove si combatte ogni giorno, in ogni ora, con tutti i mezzi, con tutte le volontà valorose inchinate ai doveri umili, per conservare l’italianità dell’anima contro l’assalto d’un’anima straniera, temeraria nella sua ostinazione, fortificata dall’appoggio dei potenti, impetuosa come si conviene a una distruttrice di memorie.

« Quanti hanno vibrato e pianto ieri, nelle ore pomeridiane a Pisino, non lo dimenticheranno mai più ; e se d’Annunzio potrà portare in sé di tutte le città della costa un’immagine confusa d’arte, di luce e di festa cordiale, di Pisino egli deve avere una di quelle memorie che hanno avuto ad artefice una commozione intensa e che cento anni di vita non saprebbero consumare. »

Difatti, d’Annunzio mostrò di essere rimasto profondamente colpito dallo spirito della gente di Pisino. In una lettera – che scrisse da Settignano, il 17 settembre 1902, a Francesco Salata, il futuro senatore, allora redattore del Piccolo di Trieste, che aveva accompagnato d’Annunzio nel suo viaggio in Istria insieme con altre personalità del giornalismo ed esponenti dell’irredentismo giuliano – si legge : « A Pisino – ricorda ? – su quel selvaggio scoscendimento, così folto di radici vigorose ed inespugnabili, noi vediamo espandersi in tutto un popolo la più alta e la più efficace forma dell’eroismo intellettuale moderno, la lotta di cultura. Sentiamo, come un palpito fiero e concorde, il diritto della grande molteplice trasfigurante civiltà latina contro il sopruso barbarico. »

A proposito di Francesco Salata, ricorderò ch’egli sposerà in seguito una pisinota, Ilda Mizzan. E ho il piacere di dirvi che qui a Montréal vive la signora Dolores Maurovich, nipote del compianto Francesco Salata, personaggio maiuscolo della Storia dell’Istria.

Anche in una lettera inedita, inviata a Trieste all'avvocato Costellos del Verdi, e divulgata nel 1997, ritroviamo il profondo amore di d'Annunzio per le terre irredente. Il Poeta scrive che « le piccole isole del mare istriano, fiorite di ginestre, mi stanno sempre davanti agli occhi, in forma di altari », e ricorda « quei giorni di vita ideale trascorsi nella nostra santa Istria » e gli amici irredentisti.

Io sono convinto che d’Annunzio trovò a Pisino qualcosa ch’egli cercava e che definirà nel futuro la sua identità e alimenterà la sua azione : la passione italiana, vissuta quotidianamente come fatto profondo, autentico, fertile d’abnegazioni. Quella passione italiana che si tradurrà in sentenza di morte per tanta della nostra gente, infoibata nelle voragini carsiche spesso dopo atroci supplizi. Tra queste persone menzionerò tra i tanti un figlio di Pisino, mio zio Lino Gherbetti (Gherbetz), zio acquisito attraverso la moglie, Adalgisa Bresciani, sorella di mia madre. Lino, nel 1902, era un fanciullino. Durante quella memorabile giornata, d’Annunzio. visitò il suo asilo. Il fanciullino dai bei capelli ondulati aveva la testa reclinata sul banco. Dormiva. Il Poeta allora accarezzò delicatamente quella testa, dicendo « Che bella bambina ! » La maestra, sorridendo corresse l’illustre ospite, precisando che era un bambino. La mamma di Lino Gherbetti alluse in seguito, infinite volte, a quell’episodio, rimproverando al figlio – portato alla passione per il violino, all’amore per le donne, al vino, al gusto del rischio e dell’avventura, e dai profondi sentimenti patriottici – quella carezza. « D’Annunzio ti ha trasmesso il gusto della trasgressione, del rischio » era solita dire – probabilmente con altre parole – la povera madre al figlio già allora troppo avventuroso.

E mio zio concluse la vita terrena nell’eroismo. Fu trucidato dai partigiani di Tito, dopo che si era consegnato alle autorità allo scopo di far liberare altri civili, ingiustamente imprigionati, come si può leggere anche nel libro di Pisanò “Storia della guerra civile in Italia”. E mia zia mi raccontò che alla vigilia dell’esecuzione, che lui dava come certa, disse a lei piangente (era andata a visitarlo dove erano tenuto prigioniero): « Io morirò per l’Italia. Ma tu non devi piangere, anzi dovrai essere orgogliosa. Un giorno andrai a Roma e ti accoglieranno con un tappeto rosso, perché tuo marito ha saputo morire per la patria. » Ma a Roma mai è stato svolto ai piedi di mia zia un tappeto rosso…

La frase dannunziana del tappeto rosso, che mio zio, non improbabilmente, aveva assorbito da quella lontana carezza del Vate, non troverà ammiratori o cultori nell’Italia della furbizia e dell’opportunismo. Rosso sarà il colore delle bandiere sventolanti – le uniche per tanti anni ammesse – e gli Italiani dell’Est, gli Italiani – se mi permettete – che hanno ispirato d’Annunzio e che sono stati da lui ispirati, saranno spesso etichettati come Slavi. Nuove retoriche prenderanno il posto di quelle antiche. Altre passioni trionferanno. Il letterato immaginifico sarà fatto oggetto di sarcasmi. Ma i detrattori prenderanno di mira soprattutto il d’Annunzio eroe. Per me invece è proprio l’esempio incomparabile di d’Annunzio guerriero ad ingigantire anche il poeta. È l’audacissimo combattente, nel cielo e nel mare, che rende coerente e vero il d’Annunzio letterato e poeta, Uomo nella sua totalità. Il vero eroismo, dopotutto, non è retorica.

Ha scritto un critico: « Farebbe cattiva storia lo storico che non subordinasse il d’Annunzio che contemplò ed espresse sé stesso al d’Annunzio che offrì mille volte la vita. » D’Annunzio, come è stato detto da altri « Ha saputo agire da eroe, non poetare da eroe. » Carlo Emilio Gadda, nel maggio del 1915, si rivolse in una lettera a d’Annunzio come « a colui che ha instituito e accresciuto nel nostro spirito la coscienza della vita nazionale ». Piero Buscaroli ha scritto che « Il sentimento nazionale compie in d’Annunzio l’uffizio che presso altri adempie la religione. È il solo sentimento umano che possedesse libero d’implicazioni estetiche. » L’eroismo, aggiungendosi all’estetismo e alla poesia – osservo io – permise a d’Annunzio di ottenere la completa coincidenza tra l’arte e la vita. « L’avventura di Cattaro – una vera e propria avventura di ulissidi – rimarrà tra le mie più belle ore di poesia », scrisse il Vate pescarese, rivelando la coincidenza ch'egli faceva tra l’arte e la vita.

L’ansia di azione coronò in d'Annunzio l’ansia di poesia. Il vivere coronò il dire. Onore quindi al poeta, al drammaturgo e al romanziere, ma onore soprattutto al patriota, al soldato della grande guerra, al legionario fiumano così vicino al mio, al nostro cuore.

 

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