da Il Piccolo del 17 giugno 2010
Si intitola ”Serbia. La storia al di là del nome” la nuova guida storica pubblicata dalla casa editrice Beit. Dal libro di Stevan K. Pavlowitch pubblichiamo un brano tratto dal capitolo finale. Il saggio verrà presentato a Trieste il 23 giugno nella sede della comunità serbo-ortodossa.
di STEVAN K. PAWLOVITCH
Malgrado i diversi presupposti che stavano alla sua base, la Jugoslavia costituì comunque l’idea politica più originale mai concepita e realizzata nell’Europa orientale e rappresentò un’inversione di tendenza rispetto a quel processo infinito che aveva portato alla creazione di Stati etnici basati su una rigorosa interpretazione del concetto di unità religiosa e linguistica, plasmato nelle scuole elementari, nelle parrocchie e attraverso il servizio militare. Ma l’idea venne realizzata in maniera imperfetta da politici la cui immaginazione non era all’altezza di ciò che avevano creato.
I serbi, che credevano di essere l’elemento politico dominante, volevano annullare la propria identità nell’ampio concetto jugoslavo. All’epoca del regno di Alessandro, essi accettarono addirittura un’identità jugoslava “integrale” ufficializzata e controproducente. Molti non compresero, non poterono o non vollero comprendere che questo concetto di identità più ampio non piaceva a tutti i compatrioti jugoslavi e non compresero neanche le implicazioni che avrebbe avuto per loro.
La distruzione della Jugoslavia perpetrata da Hitler – ossessionato dall’ostilità nei confronti dei serbi, così come lo erano gli ustascia che lo imitavano – fu un grave trauma. Le rivolte del 1941 accrebbero il prestigio dei serbi; esse furono seguite da una guerra civile combattuta tra gli insorti serbi. Il risultato fu l’ascesa al potere del Partito comunista, che reinstaurò la Jugoslavia. I comunisti erano rivoluzionari internazionalisti con una visione jugoslava, dal momento che essi volevano realmente una Jugoslavia più forte. Ovviamente non erano nazionalisti. Tuttavia, il progetto utopico che essi concepirono per risolvere la questione nazionale contribuì probabilmente più di qualsiasi altro fattore allo sviluppo dei nazionalismi settari.
Il comunismo strumentalizzò il nazionalismo anziché reprimerlo. Il sistema titoista delegittimò qualsiasi altro metodo alternativo proposto per affrontare i problemi economici, sociali e politici che si andavano accumulando. Quando il comunismo perse la sua magia, il nazionalismo lo rimpiazzò; fu infatti l’ideologia che contò il maggior numero di sostenitori in tutta l’Europa orientale in fase di transizione, perché la maggior parte delle persone poteva aspettarsi di ricavarne qualcosa.
Paradossalmente, il paese dell’Europa orientale che aveva vissuto la forma meno repressiva di comunismo fu invece soggetto al più sanguinoso processo di sgretolamento del regime che si era instaurato. Gli jugoslavi non avevano vissuto sulla propria pelle la povertà provocata dal socialismo di stampo sovietico, né i rigori quotidiani del capitalismo. Si diceva che gli jugoslavi stessero costruendo una società perfetta. Venivano sostenuti economicamente e così riuscivano a rimanere in bilico tra l’Oriente e l’Occidente. Lavoravano poco, eppure il loro tenore di vita migliorava. Indotti alla tranquillità dai relativi agi e dal prestigio internazionale di cui godeva il regime di Tito, molti jugoslavi credevano che l’ideologia marxista-leninista-titoista avesse risolto i problemi nazionali della Jugoslavia.
Fu solo al termine della Guerra fredda – quando l’incantesimo si ruppe e con esso tutte le illusioni che ne derivavano e quando le varie leadership locali passarono da una politica di “fratellanza e unità” alle dispute etniche – che i serbi si resero conto della struttura anomala della loro Repubblica. Nessun’altra Repubblica jugoslava includeva territori autonomi all’interno dei propri confini, sebbene condizioni simili fossero presenti anche in altre unità confederate.1 Inoltre i serbi avevano notato che vi erano stati altri spostamenti di individui serbi, che avevano abbandonato le zone meridionali – in cui gli individui che abitavano in quelle zone prima del 1941 non avevano potuto fare ritorno – per andare verso la Serbia centrale e verso la Vojvodina, che aveva acquisito una popolazione in maggioranza serba, dal momento che nuovi immigrati provenienti dalla Croazia, dalla Bosnia, dall’Erzegovina e da altre regioni avevano preso il posto dei tedeschi che se ne erano andati.