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17mar/08.52 – 30 anni fa moriva Santin, il vescovo dell’Esodo

Oggi alle 18.30 nella Cattedrale di San Giusto a Trieste il vescovo Giampaolo Crepaldi una messa in ricordo del vescovo Antonio Santin, considerato il "defensor civitatis" di queste terre, di cui ricorrono i trent'anni dalla morte. Nato a Rovigno l'8 dicembre del 1895, primogenito di undici figli, Santin, dopo aver frequentato il Seminario di Maribor, venne ordinato sacerdote dall'arcivescovo di Gorizia e ricevette il presbiterato dal vescovo di Trieste il primo maggio del 1918.

di ROBERTO SPAZZALI su Il Piccolo del 17 marzo 2011

Esattamente trent'anni fa si spegneva monsignor Antonio Santin, ultimo arcivescovo di Trieste e Capodistria. Se si dovesse stilare una graduatoria delle personalità che hanno caratterizzato per impronta e carisma il Novecento triestino, sicuramente gli spetterebbe il primo posto. In una città laica, non anticlericale, come Trieste sarebbe un riconoscimento per nulla clamoroso, per quanto egli ha rappresentato nel lungo episcopato tergestino, 37 anni, dal 1938 al 1975 e prima ancora per un quinquennio alla guida della diocesi di Fiume.

Tutti i triestini che hanno superato il mezzo secolo di vita lo ricordano perfettamente come presule e come uomo, quando si è trovato al cospetto della Storia e delle vicende più drammatiche che essa ha riservato a Trieste nel XX secolo, svolgendo fino in fondo un compito che poi gli ha consegnato la solenne attribuzione di "defensor civitatis", ma anche più bonaria e non meno pregnante si significato, coniata da Pier Antonio Quarantotti Gambini, di "vescovo con gli speroni" per la determinazione dimostrata nei momenti cruciali quando egli dovette impugnare il Pastorale e brandirlo, non appoggiarvisi, per difendere la sua comunità dalle spade sguainate.

Tra le molte immagini che raccontano il suo lungo ufficio mi vengono in mente subito quelle note ma significative di un giovane monsignor Santin, appena nominato vescovo, che affronta perentoriamente Mussolini sul sagrato di San Giusto provocandone l'irato stupore, oppure quella che lo vede qualche anno più tardi, quasi nello stesso luogo, a trattare la resa del presidio tedesco e scongiurare così la distruzione della città.

Ma non si può dimenticare quella di Santin, con il volto tumefatto, vilipeso ed offeso, rientrare da Capodistria dove era stato ordito un odioso agguato e un disegno criminale di ucciderlo, magari con una pietra al collo, nel golfo di Trieste. 1938, 1945, 1947, tre date e tre momenti della storia, ma si potrebbero indicare anche altre date ed altri momenti in cui dovette assolvere al vuoto del potere e rappresentare la tutta la sua gente e in particolare gli esuli giuliano-dalmati cui si sentiva parte.

C'è ampia letteratura sul suo episcopato (Guido Botteri, Sergio Galimberti, Ettore Malnati, Pietro Zovatto), oltre le sue memorie e i suoi scritti e tutte le innmerevoli citazioni da coloro che si sono occupati della storia contemporanea della Venezia Giulia.

Quattro anni fa il Comune di Trieste organizzò pure una mostra fotografica e documentaria. Un fatto straordinario per un uomo di Chiesa a riprova della rilevanza che egli ha avuto, di un uomo che è stato immensamente amato ed altrettanto temuto e perfino odiato dai suoi detrattori e dagli avversari, perché egli rivestì proprio nei momenti più difficili il duplice ruolo di guida della chiesa tergestina e di pubblica autorità morale ed istituzionale. Anche per questo il giudizio indubbiamente risente del periodo storico in cui si espresse il suo lungo operato.

Carattere determinato che seppe e volle trattare le autorità politiche e militari da una posizione di autorevolezza morale che egli rappresentava nel pieno esercizio di una istituzione di primo rango. Senza ripercorrere per intero la sua vita non si può ignorare l'origine popolare istriana – era nato a Rovigno – i suoi studi ginnasiali e seminariali sotto l'impronta austro-ungarica, l'ordinazione nelle mani del vescovo di Trieste monsignor Karlin, l'esperienza da parroco a Momorano e poi a Pola. Giunse a Trieste succedendo a monsignor Luigi Fogar, duaramente osteggiato dai fascisti, e dovendo così superare le perplessità iniziali.

Fermo nella obbedienza al Pontefice egli dovette fare pure i conti con un regime fascista, nato pagano, che compì la perfetta saldatura di regime con i Patti Lateranensi senza tuttavia riuscire a piegare la Chiesa all'ideologia. Consapevole di ciò, seppe allora affrontare Mussolini, per due volte, perorando anche la causa degli ebrei perseguitati e cercando di trovare una soluzione alle ostilità poste dai gerarchi locali al clero sloveno e croato, disse quello che doveva dire ai nazisti tedeschi, ai comunisti jugoslavi, ai generali anglo-americani, ai funzionari governativi italiani.

La gente comune lo ricorda ancora dietro le bare dei sei caduti del novembre '53 ed accanto gli operai del cantiere San Marco minacciato di chiusura nel '66. Dovette affrontare gravi crisi all'interno del clero di una diocesi, dopo il 1945, divisa da una frontiera anche ideologica, ma anche le trasformazioni del mondo cattolico con il Concilio Vaticano secondo, le incomprensioni con Azione Cattolica, i difficili rapporti con la Dc morotea alle prese con il centrosinistra.

Certo, va riconosciuta l'intransigente difesa dell'autonomia dell'istituzione ecclesiastica ma anche l'indubbio impegno pastorale, come il sostegno all'opera missionaria in Kenya, con significative proiezioni civili. E proprio per la complessità della figura e del suo tempo Antonio Santin attende ancora una biografia completa e ragionata.

 

 

 

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