di CALLISTO COSULICH su Il Piccolo del 18 agosto 2009
«Preparati a scrivere il mio coccodrillo»: con queste parole, dettemi pochi mesi fa in tono quasi scherzoso, Tullio Kezich mi rivelò che gli era stato diagnosticato un tumore. Avevamo spesso scherzato sulla morte, specie da quando ci siamo ritrovati a Roma, dove il nostro congome con quell’ich finale finiva per confondere le persone che incontravamo, sì che più di una volta è capitato sentirci fare le condoglianze per una persona cara, che invece era parente stretto dell’altro. Ma stavolta non si trattava di una boutade. Tullio era cosciente che gli restavano pochi mesi di vita e proprio per questo aveva messo una marcia in più alla sua attività di critico e di scrittore, soprattutto di scrittore, perchè è stato un caso unico di prestato alla narrativa, mentre capita spesso che un letterato tenga su qualche organo di stampa la rubrica di critica cinematografica. Con la differenza che a fare il critico cinematografrico, bene o male,tutti sono capaci (Truffaut diceva che tutti hanno un doppio mestiere: quello loro e quello del critico cinematografico), mentre è quasi escluso che avvenga il contrario.
Tullio era riuscito a compiere il miracolo: critico, drammaturgo, narratore; tre attività che, invece di venire in conflitto, si esaltavano a vicenda. È stata una sua specialità il portare sul palcoscenico classici della narrativa, così come il conferire spessore letterario alle sue biografie di registi, produttori e attori, così come ai diari tenuti seguendo la lavorazione di certi film: il ”Salvatore Giuliano” di Francesco Rosi, ”La dolce vita” di Federico Fellini, della cui nuova edizione, riveduta e corretta, abbiamo avuto occasione di parlare pochi giorni fa, in concomitanza con la presentazione al Festival di Locarno del film di Mingozzi sul capolavoro di Fellini, costruito appunto sulla scia del volume di Tullio.
L’opera di Kezich più complessa sul piano letterario rimane comunque ”Una notte terribile e confusa”, uscita nel 2006, in cui egli rievoca episodi della sua vita, che risalgono al primo decennio del dopoguerra. Lo fa in chiave epistolare, usata nella fattispecie dal gruppo di amici e amiche, ”la clapa” come viene chiamata, per scambiare notizie, confessioni, riflessioni, a volte anche rimproveri, persino minacce di troncare ogni rapporto. Sotto falso nome nella ”clapa” ci siamo tutti quanti. Poco per volta ci riconosciamo, restituiti a un passato che per sua natura non può non destare nostalgia. Poi ciascuno ha preso la sua strada, quasi tutti lontano da Trieste, sperando di dare un significato definitivo alla propria vita.
Di tutta la ”clapa” Tullio era il più giovane, con alle spalle un’adolescenza da ”bambino prodigio”. Il cinema, col suo fascino, ci stregava. Per praticarlo, o soltanto per scriverne, alcuni hanno rinunciato alla carriera, alla quale l’ambiente famigliare li aveva destinato. Facendo un passo dopo l’altro, il primo dei quali consisteva di solito nel promuoverne la conoscenza, nel rivendicare la sua importanza artistica e culturale, che i più, a cominciare dagli intellettuali e dai cattedratici, mettevano in discussione o, semplicemente, negavano. Su questa ”missione” io e Tullio abbiamo trovato una perfetta intesa, pur rispettando la diversità delle nostre preferenze. Lui si era avvicinato al cinema, affascinato soprattutto dai western, io dai film dell’orrore. Occorrerebbe una seduta psicanalitica per stabilirne il motivo. Ma questa diversità dei rispettivi ”culti” non ci divideva: al contrario ci divertiva. E ogni tanto, sino a questi ultimi giorni, era occasione per rievocare aneddoti risalenti al nostro passato triestino. Prima di diventare ”persone serie”.