In un’intervista all’agenzia giornalistica AdnKronos, Michele Loporcaro, professore di Linguistica Romanza nell’Università di Zurigo, ricorda come il solo caso di perdita di una parlata romanza, ovvero di derivazione neo-latina, «è quello del dalmatico dell’isola di Veglia», un idioma estintosi alla fine dell’Ottocento con la morte di Antonio Udina, l’ultimo a parlarlo, il cui nome è in qualche modo passato alla storia in quanto ebbe l’occasione di incontrare il grande glottologo Matteo Bartoli, che al dalmatico dedicò nel 1906 la tesi di dottorato a Vienna, Das Dalmatische in 2 volumi.
Per altro verso, è stato calcolato che dalla Bolivia al Nepal, dal Perù all’Australia, sono circa duecento le lingue destinate a scomparire nell’arco di pochi anni, quando si estingueranno con l’ultima persona che le avrà parlate. Ma almeno per il dalmatico sussistono pregevoli fonti antiche, a partire dallo storico dalmata Giovanni Lucio che così ne trattò nella sua opera De Regno Dalmatiae et Croatiae (1666): «[…] risulterà chiaro che la lingua latina in Dalmazia aveva subito delle modificazioni al pari del latino in Italia e che intorno al 1300 il volgare dalmatico era più vicino alla lingua dei Piceni e degli Apuli che non a quella dei Veneti o dei Lombardi: quando invece a partire dal 1420, essa era diventata somigliantissima al veneziano […]».
La traduzione italiana de Das Dalmatische di Bartoli, edita dall’Istituto per l’Enciclopedia Italiana nel 2000, fu curata dal zaratino Aldo Duro, insigne lessicografo a lungo presidente dell’Accademia della Crusca, direttore del Grande Vocabolario Treccani e dell’Osservatorio della Lingua italiana. Ultimo esponente, Duro, della grande scuola dalmata di studiosi e cultori della lingua italiana, da Gianfrancesco Fortunio (sue, nel 1516, le Regole grammaticali della volgar lingua), a Niccolò Tommaseo, da Adolfo Mussafia allo stesso Bartoli, che chiude una plurisecolare tradizione di prestigiosi studi linguistici, specchio dell’antica pertinenza alla civiltà italiana.
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