da Avvenire del 14 luglio 2011
Testimonianze. Gli italiani in fuga dalle loro terre, assegnate a Tito, non trovarono in
Italia la sperata solidarietà. Etichettati – a torto – come “fascisti”, viaggiavano in treni
militarizzati. Il ricordo di un bambino.
di Giovanni Mattazzi
Contrariamente alla maggioranza degli italiani, ho sempre saputo, fin da ragazzo,
della tragedia delle foibe. Alla fine degli anni Quaranta avevo poco meno di nove anni e in
famiglia, a volte, si parlava di quanto accaduto durante la guerra. Già allora leggevo con
interesse tutto quello che mi passava fra le mani. E non solo Topolino e Intrepido, ma anche
romanzi, periodici e i giornali d’informazione e di politica che giravano per casa. Ricordo,
fra i settimanali, Meridiano d’Italia, una testata fondata nell’immediato dopoguerra da
Franco de Agazio: un giornalista coraggioso, assassinato nel 1947 dalla Volante rossa.
Da Meridiano d’Italia avevo appreso le vicende della Venezia Giulia, dell’Istria e
della Dalmazia. E su quel foglio e su altri ancora avevo letto le prime denunce delle
uccisioni indiscriminate di tanti nostri connazionali dopo l’8 settembre 1943 e il 25 aprile
1945. Avevo appreso della pulizia etnica attuata nei confronti di chi, deciso a difendere
l’italianità di quelle terre, non gradiva la presenza dei “liberatori” slavi che, nei 45 giorni
di permanenza a Trieste (tanto era durata l’occupazione da parte del IX Corpus), avevano
colmato di cadaveri la foiba di Basovizza. Ricordo la satira politica del Candido di
Giovannino Guareschi e il disegno a tutta pagina di un debordante Tito, in divisa da
maresciallo, curvo sotto il peso delle innumerevoli medaglie guadagnate “Al merito delle
foibe”.
Dopo il Trattato di Parigi del 10 febbraio 1947, che consegnava alla Jugoslavia
l’Istria e la Dalmazia, e istituiva il Territorio libero di Trieste, circa 250 mila italiani
avrebbero lasciato quelle terre per trovare rifugio in patria, privi di ogni proprietà e di
ogni avere, verso un futuro non certo radioso.
Nel 1949 abitavo in Piemonte, nella stazione ferroviaria di Oleggio, un paesone
della provincia di Novara a pochi chilometri dal Ticino. Ero figlio di un capostazione delle
Ferrovie dello Stato e da ragazzo avevo abitato con genitori, sorelle e nonne, in diverse
stazioni, a motivo di quei trasferimenti che sono il tipico orgoglio/fardello dei funzionari
statali in carriera. Doveva essere una mattinata d’estate (portavo i pantaloni corti sopra il
ginocchio e non vi era scuola), quando mio padre entrò in casa agitato, dicendo a voce alta:
“C’è un treno di profughi da Trieste. Venite a vedere!”. Con una delle mie sorelle mi buttai
di corsa giù per le scale, scendendo a precipizio (abitavamo nel piano alto dell’edificio).
Arrivato sotto la tettoia, attraversai i binari dello scorrimento veloce (a quel tempo i
sottopassi erano un lusso), guardai il treno – fermo sul binario morto – e, di colpo, mi
sentii a disagio. Le carrozze sembravano vuote, prive di vita.
Mi aspettavo di vedere gente sgranchirsi le gambe sul marciapiede o fumare una
sigaretta. Niente di tutto questo. Le carrozze, del tipo con ingresso alle estremità (non
quelle abituali ad accesso multiplo), avevano le porte sbarrate. Nessun finestrino era
abbassato (cosa inconcepibile d’estate). Era un treno fantasma, deserto o abbandonato. Mi
avvicinai, e con mia sorella iniziai a guardare meglio, percorrendo il marciapiede. Con
stupore mi accorsi che le vetture erano occupate, ma, stranamente, dall’interno non
giungeva rumore alcuno. Non un’eco di discussioni, di richiami, di grida, di pianti, di urla.
Nulla. Un silenzio inquietante e pauroso. I profughi erano seduti senza parole. Nessuno di
loro era in piedi negli scomparti. Per una sorta di timore o – più probabilmente – di
pudore, sembrava quasi che non volessero apparire. Forse desideravano proseguire
inosservati. Vinta la timidezza, io li guardavo sorridendo e facevo con le braccia ampi gesti
di saluto.
“Vi serve qualcosa?”, gridavo, cercando di farmi intendere. “Possiamo fare qualcosa
per voi?”. All’improvviso un finestrino si abbassa e una donna dai capelli bianchi, robusta
e sulla sessantina (una contadina in apparenza), si affaccia e, con mala grazia, mi porge
una bottiglia vuota dicendo: “Va’ a riempirla d’acqua!”. L’afferro e mi precipito a razzo
verso la fontanella, attraversando di corsa i binari. Ero emozionato. Temevo che il treno
partisse, senza che io riuscissi a rendermi utile. Mentre sono intento a riempire la bottiglia
(un contenitore per il latte dalle linee squadrate), mi accorgo che a qualche metro di
distanza – aggrappati (per vedere meglio) alla tipica cancellata in cemento che separa la
stazione dal piazzale – cinque o sei uomini mi osservano con stupore. Vedendomi tutto
preso e indaffarato, qualcuno ride e comincia a canzonarmi. Un ragazzo mi urla: “Lasciali
perdere. Non portare niente!”. “Perché?”, domando io. “Perché quelli là sono fascisti!”, è
la risposta.
Ritorno veloce al treno, badando a non far traboccare l’acqua, e porgo la bottiglia.
Questa volta la donna mi sorride e chiude il finestrino. Si siede dinanzi al vecchio che
l’accompagna – forse suo marito – e lo fissa scuotendo la testa. Ora anche lui sorride,
imbarazzato, e mi saluta con un cenno della mano. Poi i due si guardano di nuovo e
cominciano a piangere in silenzio. Io rimango immobile sul marciapiede e non capisco.
Comprenderò più tardi, ripensando a quell’incontro. Tutto mi apparirà chiaro, anni dopo,
sulla scorta di notizie più precise.
Verrò a sapere che il trasferimento di quegli sfortunati era stato militarizzato. Che
per impedire le rivelazioni agghiaccianti degli esuli e non offrire occasione d’incidenti ai
provocatori (come le risse alla stazione di Bologna), era stato fatto rigido divieto di
scendere dalle carrozze e di socializzare con la gente. I treni avevano una scorta, a
garanzia dell’incolumità dei trasportati e a tutela dell’ordine pubblico. Il modo brusco con
il quale la donna mia aveva allungato la bottiglia – quasi ad allontanare un fastidioso
seccatore – celava il timore di essere nuovamente oggetto d’insulti e di umiliazioni. Un
esagitato avrebbe potuto strapparmi il vetro dalle mani, riproponendo un canovaccio già
recitato altrove. In paese la voce della presenza del treno si era diffusa in un attimo e a
qualche militante, accorso dalla vicinissima Casa del Popolo, l’idea di provocare gli esuli
era forse balenata nella mente. Le ferite della guerra civile erano ancora aperte, e il
Piemonte non faceva eccezione.
Anche Oleggio aveva fatto la sua parte. Ma non accadde nulla. Nessuno aveva
voluto coinvolgere un bambino nelle miserie della politica e delle ideologie. Tutti avevano
recepito quel gesto per quel che era: un segnale di solidarietà umana. Forse i profughi
l’avevano considerato di buon auspicio per il loro incerto avvenire. Fino a quel momento,
percorrendo l’Italia, avevano probabilmente avvertito soltanto l’estraneità di una patria
indifferente, ostile, addirittura nemica.
(courtesy MLH)