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19 mar – Brescia: insegnanti ”fuori strada”

Dal giornale “Brescia Oggi” apprendiamo che si è costituito un pool di insegnanti per diffondere la vera verità sulle Foibe e sull’esodo giuliano-dalmata.

L’intento sarebbe lodevole se non partisse già con il piede sbagliato, indulgendo alla più stantia propaganda diffusa dal regime comunista iugoslavo contro l’Italia democratica durante le trattative di pace del 1946.

L’equazione fascismo=sopraffazione delle popolazioni slave=vendetta post-bellica contro gli italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia è errata perché non tiene conto del “contesto” dell’intera vicenda.

Quel contesto deriva direttamente dallo scontro etnico tra italiani e slavi nell’Adriatico orientale fin dall’Ottocento, acuitosi dopo la prima guerra mondiale con le annessioni all’Italia e alla neonata Iugoslavia delle regioni mistilingui prima soggette all’impero austro-ungarico. Le reciproche rinunce dei due Stati rispetto alle aspettative eccesive di entrambi (la Iugoslavia voleva tutta la Venezia Giulia e il Friuli orientale e l’Italia metà della Dalmazia) offrirono il presupposto di una contesa infinita, alimentata da nazionalismi contrapposti e segnata dai primi esodi: italiani dalla Dalmazia; sloveni e croati dalla Venezia Giulia.

Tutto questo ancora al netto delle ideologie fascista e comunista, che si affermarono solo dopo e aggiunsero alla contesa etnica le armi ideologiche e i metodi totalitari che hanno portato alla barbarie del conflitto bellico dopo il 1941.

Parlare di “innumerevoli e barbare stragi sul confine orientale” nel ventennio fascista è un linguaggio privo di consistenza obiettiva perché le condanne a morte pronunciate nella Venezia Giulia non furono più numerose di quelle delle altre regioni italiane e per reati gravissimi che oggi chiameremmo di terrorismo. Si può contestare a ragione l’osservanza nei processi delle garanzie di uno stato democratico e di diritto, trattandosi di tribunali “speciali” di pretta marca politica.

Per il resto lo Stato fascista si comportò con le minoranze linguistiche come tutti gli stati europei dell’epoca, dalla civilissima Francia alla Polonia, alla Romania, alla Iugoslavia stessa. Dove mai furono rispettate le lingue e le culture locali minoritarie, come avveniva sotto la vecchia Austria; per necessità più che per virtù, essendo nata come stato ereditario plurietnico?

Lo statalismo accentratore e snazionalizzatore era comune a tutta l’Europa del tempo. Era la caratteristica degli stati nazionali nati dalla rivoluzione francese.

In più la repressione tipica di un regime dittatoriale colpì gli oppositori con il “confino” da un capo all’altro della penisola. Di essa facevano anche parte nei primi anni le violenze squadriste. Certamente in Venezia Giulia alle ragioni politiche si accompagnavano spesso quelle di carattere etnico, anche se camuffate sotto altre motivazioni (sicurezza dello stato, ecc.).

Quanto all’invasione e occupazione italiana della Iugoslavia nel 1941-43 nessuno ha mai negato che siano stati commessi crimini di guerra contro le popolazioni civili sospettate di collaborare con i partigiani. Ma non si possono dimenticare i conflitti inter-etnici tra croati e serbi e tra serbi e albanesi e le divisioni politiche tra collaborazionisti sloveni e croati, alleati dell’Asse, e i partigiani iugoslavi di diverse tendenze (monarchici e comunisti).

Anche qui addossare ogni responsabilità al soldato italiano, coinvolto in una feroce guerriglia di stampo balcanico che non si aspettava e non conosceva, risulta del tutto ingiusto e sviante. La pratica dei campi di internamento era comune a tutti i belligeranti: dagli Stati Uniti al Canada, alla Gran Bretagna. Non si trattava di campi di sterminio e in molti casi gli internati erano volontari per sfuggire alle rappresaglie dei vari contendenti. Queste osservazioni non consentono ovviamente di nascondere o scusare le responsabilità di comandanti e di reparti che hanno violato le convenzioni internazionali compiendo eccidi di civili innocenti o tenendo i campi di detenzione in condizioni disumane. Come poi avvenne con gli italiani nei gulag titini, dove verranno trattenuti per anni dopo la fine del conflitto, senza fornire notizia alcuna ai familiari. Migliaia di questi non faranno più ritorno.

Del tutto diverso invece è il contesto che sta dietro il disegno di pulizia etnica preordinato e praticato dai comandi partigiani di Tito, come è stato documentato da storici italiani e stranieri imparziali. Disegno finalizzato all’annessione dell’intera Venezia Giulia e della piccola provincia di Zara, appartenenti allo Stato italiano dal 1920-1924, “ripulendole” di quasi tutta la sua popolazione italiana, in gran parte autoctona e in più zone omogenee anche maggioritaria (come riconobbero i membri occidentali delle commissioni alleate per il trattato di pace).

Quello che è avvenuto nella Venezia Giulia e in Dalmazia a danno degli italiani a guerra finita non trova corrispondenze nelle altre “liberazioni” compiute dagli eserciti delle democrazie occidentali. Quando i reparti francesi, belgi, olandesi, danesi varcarono i confini del III Reich non massacrarono le popolazioni civili tedesche per vendicarsi delle rappresaglie altrettanto barbare compiute dai nazisti nelle loro patrie. Né uccisero i prigionieri di guerra, come avvenne ai militari italiani, anche non della RSI, a Fiume, a Trieste e un po’ ovunque. E’ stata l’ideologia comunista a eccitare alla vendetta contro i “nemici del popolo”, individuati in chiunque si opponesse all’annessione della sua terra ad un paese per lui straniero. Fosse pure un partigiano antifascista o un combattente del Corpo Italiano di Liberazione, un esponente del CLN o un reduce dai lager tedeschi.  

Una propaganda che tra l’altro non aveva presa su tutta la popolazione slava:
1°) perché non tutti erano comunisti; che anzi la violenza dei partigiani in Iugoslavia si abbatté su croati, serbi e sloveni come sulle altre minoranze: ungheresi, albanesi o slavo-macedoni, altrettanto che sugli italiani della Venezia Giulia; 2°) perché i soldati italiani non erano odiati dalle popolazioni dei territori occupati, tanto da essere soccorsi e aiutati dalla gente dopo l’8 settembre del ‘43 per proteggerli dai tedeschi e dagli stessi partigiani. L’odio era quindi il prodotto di una propaganda ideologica diretta a confondere le coscienze dei combattenti partigiani, inducendoli ad azioni di ferocia, di cui molti si pentirono davanti alle commissioni d’inchiesta alleate.

Se si vuole trovare un parallelo con l’incubo che è stato per gli italiani la “liberazione” iugoslava bisogna andare agli esempi della Germania orientale, della Polonia (benché alleata), della Romania, dell’Ungheria, liberate dall’armata rossa. Si leggano allora le memorie di Günter Grass e degli scrittori romeni, polacchi, ungheresi o di un testimone onesto come il giovane capitano russo Solgenitsin, su quello che è stato l’arrivo dell’armata sovietica in quelle regioni.

Forse se ne potrà trarre qualche conclusione pertinente, che abbia un riscontro nella logica e nella morale comuni.

Lucio Toth, Presidente nazionale ANVGD

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