2 giugno 1946 La Repubblica mutilata

Pochi sanno che le prime elezioni italiane a suffragio universale, con voto diretto, libero e segreto avvengono con una distorsione territoriale non priva di conseguenze: è il 2 giugno del 1946 – esattamente settant’anni or sono – e, seppur le cronache tendano a riportare la «disciplinatezza con cui gli elettori e le elettrici risposero all’appello, la paziente attesa di ore e ore sotto il dardeggiare del sole estivo, la compostezza delle fila, l’assenza di ogni contesa tra persone di contrastanti idee, che marciavano gomito a gomito verso la sospirata cabina», la storiografia ha ampiamente dimostrato come il clima fosse tutt’altro che tranquillo e gli allarmi per scontri e per le degenerazioni di piazza particolarmente elevati e temuti.

E lo scenario appare inevitabilmente più acuito se si sposta lo sguardo verso il confine orientale, all’epoca zona ad altissima instabilità, la cui permanenza nell’area di competenza italiana appariva tutt’altro che certa, tanto da considerare assolutamente inopportuno – e pericoloso – il ricorso alle urne, seppur i comizi elettorali fossero già stati indetti: infatti, dei 573 seggi dell’Assemblea Costituente da assegnare e previsti dal Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 74 del 10 marzo 1946, in realtà ne furono attribuiti soltanto 556, mancando all’appello i 13 previsti per la Circoscrizione XII (Trieste e Venezia Giulia-Zara), oltre ai 5 della provincia di Bolzano. Con un ulteriore Decreto Luogotenenziale, di soli sei giorni successivo, fu, per l’appunto, sostanzialmente ritenuto impossibile lo svolgimento delle elezioni in quelle terre di confine, a causa della situazione internazionale.

Il progetto titino, d’altronde, era chiaro e l’ipotesi di realizzare una pan-Jugoslavia non poteva prescindere da Trieste, che rappresentava una vera e propria priorità, con mire espansionistiche che si spingevano addirittura fino all’Isonzo. Accanto a ciò, gioca un ruolo altrettanto determinante l’internazionalismo comunista, in nome del quale non ci sono differenze di etnia o di appartenenza che possano limitare il compimento di una repubblica a socialismo reale.

Ed ecco che una porzione non irrilevante del territorio nazionale viene letteralmente delegittimata e non può esprimere l’appartenenza nazionale attraverso l’indicazione dei propri rappresentanti ed un’area geografica di quasi un milione di persone viene amputata in modo affatto marginale dal dibattito politico, sociale, economico e culturale. Per una sorta di secondo scherzo del destino, come già era accaduto nel 1919 alla conclusione del primo conflitto mondiale, il confine orientale risultava assente dal panorama elettorale nazionale, proprio in quelle terre che più di tante altre nutrivano il senso dell’italianità e avevano conosciuto il sangue di milioni di soldati nelle trincee e di altrettante migliaia di concittadini nelle foibe.

Ed è anche da questa mancata partecipazione elettorale che trae origine la difficoltà della Storia del confine orientale a rientrare nell’alveo del ben più ampio contesto nazionale: se è vero che il progetto Costituente fu un passaggio fondamentale per la costruzione del tessuto valoriale della nostra Repubblica, Trieste e la Venezia Giulia si sentirono abbandonate e lasciate al loro destino.

E non fu un caso che l’ottantaseienne presidente provvisorio dell’Assemblea Costituente, quel Vittorio Emanuele Orlando insigne giurista, ma altrettanto fine politico siciliano, decise di inaugurare i lavori ««nel ricordo del dolore disperato di quest’ora, nella tragedia delle genti nostre di Trieste, di Gorizia, di Pola, di Fiume, di Zara, di tutta la Venezia Giulia, le quali però, se non hanno votato, sono tuttavia presenti, poiché nessuna forza materiale e nessun mercimonio immorale potrà impedire che siano sempre presenti dove è presente l’Italia».

Davide Rossi – 03/06/2016
Fonte: IlGiornaleOff

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