di Enzo Bettiza su La Stampa del 18 agosto 2009
I Kezich, triestinizzati, provenivano dal cuore della Dalmazia, da Spalato, dove io ragazzo, moltissimi anni prima di conoscere Tullio, passavo le estati ai bagni con i suoi cugini croati Edgard e Sabina. Capitava che nell'antica e scomparsa Dalmazia tommaseana, culturalmente meticcia e bilingue, un medesimo ceppo familiare si dividesse per rami slavi e italiani. Più tardi conobbi l'avvocato Kezich, spalatino di nascita, principe del foro di Trieste, che preannunciava il figlio nell'occhio irrequieto, nella lingua tagliente, nella giacca estiva appesa con incuria spavalda al sussulto d'una spalla: un'autentica icona dalmatica, mai dimenticata da chi in tribunale ebbe a subirne lo sguardo e lo scherno sulfurei.
Tullio lo incontrai finalmente nella Milano dei primi Anni 50. Quella racchiusa all'ombra di Brera fra il bistrò «Giamaica» e il ristorante «Soldato d'Italia», piazza d'armi e di bohème per pittori in ascesa, scrittori in cerca d'editore, giornalisti in attesa di chiamata dalla vicina cattedrale di Via Solferino. Ricordo un ventenne vivace, insofferente, critico d'ogni cosa intorno, annoiato dagli articoli obbligato a scrivere per la rivista Cinema orchestrata dal direttore Aristarco le cui arie e lezioni demiurgiche gli davano ai nervi. In quella Milano promettente, ricca d'iniziative artistiche e giornalistiche, alla quale dal soffocato «Territorio libero di Trieste» accorrevano talenti repressi in cerca di sbocco, Tullio già primeggiava per il suo ingegno proteiforme, ben al di là dei confini cineastici. Lo scrittore pudico e analitico, il commediografo e produttore avventuroso, il reinterprete di Svevo e di Pirandello, che covavano in lui, erano già avvertibili nelle sue battute ridenti e perforanti. AI tempo stesso s'avvertiva in Tullio la malinconica disponibilità alla sperimentazione e frammentazione artistica dell'esule di confine, del vagabondo inventivo che si porta più patrie nel sangue, più dimensioni nello spirito perennemente vigile e insoddisfatto.
Avrebbe potuto essere anche lui, come Claudio Magris, un mostro sacro della triestinità. Ma la parte dalmatica della sua natura, la più contraddittoria, per tanti aspetti la più profonda ancorché ignota a lui stesso, lo portava a consumarsi nel ruolo del mostro nascosto, laterale, discreto: e questo che spiega quel suo singolare bisogno di mimetizzare un innato talento creativo occultandolo nella ricostruzione teatrale della Coscienza di Zeno, nella messinscena del fu Mattia Pascal, o nella splendida narrazione biografica dedicata a Fellini.
Quando lesse il mio Esilio, che gli rivelava i labirinti etnici da cui proveniva anche la sua famiglia, mi scrisse una lettera di sette pagine: la più conturbante e consanguinea delle recensioni che io abbia mai ottenuto. Lui, invece, le recensioni non le cercava proprio. I suoi brevi e intensi racconti li pubblicava presso editori minori, e li spediva personalmente per posta a pochi amici. Quando tentai di ringraziarlo per l'invio anonimo di uno dei suoi ultimi volumetti, finse di cadere dalle nuvole: «Ma che dici? Io, i miei libercoli non li mando mai a nessuno».