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2013, l’anno di Padre Flaminio Rocchi (10) – 06mag13

Siamo alla decima puntata della storia dell’Apostolo degli Esuli, Padre Flaminio Rocchi, con altri brani tratti dal libro edito dalla ANVGD. Dopo la foto trovate i link per accedere alle puntate precedenti.

 

Nella presente puntata gli scritti di Padre Rocchi sulla crudele realtà della profuganza, con particolare attenzione verso i bambini, le donne, gli anziani.

 

I giuliano-dalmati che fuggono verso la sconfitta Italia trovano soltanto un paese in rovina. Non resta loro altro che -per anni- il destino dei campi profughi, squallide e precarie sistemazioni in condizioni spesso inenarrabili. Dalla sua esperienza personale e dai racconti di chi vi ha vissuto, ne trae una serie di considerazioni che riporterà sui suoi libri e che utilizzerà relazionando all’A.W.R., l’organismo consultivo dell’ONU per il problema dei rifugiati e che lo vedrà membro per molti anni. Sono racconti spesso molto crudi, che non nascondono quella realtà che invece molti volevano negare.

 

«I giuliani avevano la vocazione del guadagno ed il gusto della vita. In certi settori il livello sociale era il più alto d’Italia. Così, per esempio, nel 1938 ogni giuliano consumava in media 28 Kg. di carne all’anno contro una media nazionale di 19 Kg. (il Piemonte 26 Kg., la Sicilia 7 Kg.); consumava 64 litri di bevande vinose contro una media nazionale di 54 litri; fumava Kg. 1,05 di tabacco contro una media nazionale di gr. 633; spendeva per spettacoli Lire 4,43 contro una media nazionale di 2,22. Ogni anno su 1000 abitanti c’erano 25 reati contro la media nazionale di 35.
Improvvisamente tutto questo benessere è crollato sotto i loro piedi ed essi si sono trovati nello squallore di un Campo, in un ambiente sconosciuto, circondati da circa 20 milioni di italiani sinistrati e da 3 milioni di disoccupati.
In simili circostanze, quando il corpo e lo spirito sono sottoposti ad una tortura martellante, tutte le soluzioni sono possibili: dall’eroismo all’abbrutimento, dalla passività pigra alla ribellione all’autorità e alla società.
[…] Hanno mandato i figli a studiare con le borse di studio ed essi hanno accettato qualsiasi lavoro ed in qualsiasi località, anche all’estero. Molte signore si sono trasformate in domestiche. Oggi la comunità giuliana è orgogliosa di annoverare parlamentari, vescovi, industriali, armatori, professori universitari, comandanti di transatlantici, ufficiali, funzionari, commercianti. Oggi i giuliani disoccupati, censiti, sono: soltanto 658.»

 

«Quasi tutti i campi erano situati fuori dell’abitato, senza luci pubbliche e senza negozi. Non vi passava nessuno. Erano un agglomerato declassato di persone marginali, differenti, inferiori. Il direttore del centro e il poliziotto del cancello avevano esautorato il capo famiglia che si vedeva in fila con i figli, con un barattolo in mano davanti a un marmittone militare. Il cuoco e il magazziniere erano più importanti della mamma. Lei lavava la biancheria nel lavatoio che lungo una parete aveva una vasca comune e lungo quelle di fronte una batteria di gabinetti con porte parziali volanti. Lei cercava la cicoria nella campagna, e, più coraggiosa dell’uomo, andava allo sportello dell’ufficio del collocamento cercando di nascondere le cadenze dialettali.
I bambini non andavano a scuola. Disegnavano trenini in corsa col pennacchio di fumo, la barchetta a vela, il gabbiano in volo in cerca della libertà.
Già grandicelli bagnavano a letto perché avevano paura di raggiungere col buio i servizi in fondo al cortile, infestato dai topi.»

 

I bambini profughi – dalla relazione al convegno annuale dell’AWR, Strasburgo 1965

 

«I primi 108 campi di ricovero vengono costituiti in Italia negli ex campi dei prigionieri di guerra, recintati ancora col filo spinato e con le torrette di vigilanza, nelle caserme e negli accantonamenti dei soldati, ancora imbrattati da disegni sconci e da scritte italiane, tedesche e inglesi. Qui i 15 mila bambini giuliani e dalmati si trovano come uccellini spaventati dietro le sbarre di grandi gabbie. Attraverso i vetri rotti ed oltre la sagoma del poliziotto di guardia ai cancelli, essi osservano con impressionante malinconia le frotte allegre degli altri bambini, che fuori cinguettano liberi e sazi, correndo verso casa o verso la scuola con i grembiuli bianchi ed i fiocchi azzurri. C’è nella fissa immobilità dei loro occhi nostalgia, invidia, qualche volta rabbia.
[…] L’abitare e il dormire in ampi e tetri cameroni con centinaia di uomini e di donne, il subire di giorno e di notte lo sbattere delle porte, il passaggio delle correnti d’aria, le liti immancabili in simili coabitazioni, le urla di qualche ubriaco, la caduta di un tegame, il tanfo delle povere cucine, dei rifiuti e del bucato, la visione più o meno volontaria di nudità, di funzioni naturali e sessuali, provoca nella psiche del bambino complessi di paura, di incubo, di curiosità morbosa proprio quando il bambino avrebbe bisogno di svilupparsi in un ambiente sicuro e sereno. Bambini di 8-9 anni, immersi in cose troppo grandi, raccontano alle bambine ciò che hanno visto fare dai genitori e le invitano a “giocare all’amore” come loro!
[…] Tutta l’infanzia profuga ha un volto dolcissimo, soffuso da una soave malinconia. Molti, pungolati da una reazione psicologica, diventano i primi della classe, vincono borse di studio, si impongono per bontà e resistenza di carattere.
Forse nel loro Paese di origine molti sarebbero rimasti contadini o artigiani. Ora, perduta la campagna o l’officina, hanno acquisito un titolo di studio che consentirà loro di esercitare una professione superiore e di risolvere brillantemente la situazione economica anche dei loro genitori. In casa le bambine sono servizievoli e affettuose. A 5-6 anni aiutano la mamma a lavare e spazzare, a sorvegliare il fratellino, a effettuare con responsabilità piccole commissioni. La sofferenza le ha maturate precocemente.»

 

«La guerra o l’esodo hanno rubato spesso a questi giovani dieci-quindici anni preziosi e determinanti di vita durante i quali essi avrebbero potuto formarsi una famiglia, Non è facile tenere a freno per anni con belle parole spirituali una prorompente vocazione matrimoniale, un assillante richiamo sessuale, irritati dall’ozio del Campo o da un avvenire incerto.
[…] Qualche volta la crisi di questi giovani, maturati precocemente dalla sventura e dall’esperienza, comincia a rodere anche l’unità familiare. I vecchi genitori, già stagionati, stanchi, sono rimasti aggrappati ai vecchi ricordi, ai loro costumi antichi. Non hanno più radici per una terra nuova. Si sono seccati precocemente. Ingombrano la casa come rami secchi. La lontananza aumenta anche perché i giovani con la facilità di apprendere la nuova lingua, di assimilare lo abitudini locali, di acquisire un titolo di studio ed una cultura superiore, con la necessità di abbandonare la professione del padre, con il matrimonio con una persona non profuga, si sono facilmente inseriti nella nuova società. Spesso sono scomparsi in questa società, mentre i genitori sono rimasti lungo la strada dell’esilio in qualche ricovero. L’unico legame è costituito da qualche rara lettera o da qualche pacco caritativo.»

 

Le giovani profughe – dalla relazione al convegno annuale dell’AWR, Strasburgo 1965

 

«Non è facile conservarsi puri quando si hanno venti anni, si sente nel cuore e nel corpo una prorompente vocazione al matrimonio, si vive con centinaia di uomini e di donne in una promiscuità senza difesa, in cameroni, suddivisi da pareti di cartone in tanti box, come alveari, e in ogni box ci sono 10-15 persone anche di famiglie differenti. Le baracche del campo di Laterina (Arezzo) nel 1948 avevano una capienza ufficiale di 900 persone, ma ne ospitarono 8 mila, I capannoni di Cinecittà a Roma ospitavano oltre 10 mila profughi con una capienza di 2 mila unità.
Il matrimonio in queste circostanze si presenta anche come un mezzo per liberarsi dal campo. Se gli anni passano a vuoto, qualcuna crede di poter rischiare anche oltre il lecito. Gli organizzatori di manifestazioni danzanti dei paesi vicini inseriscono nei manifesti, con particolare significato, la frase: «è assicurato l’intervento delle signorine del campo».
In questo disordine materiale e spirituale si rischia di perdere il concetto del male. In qualche caso si accetta il matrimonio senza amore, soltanto per poter emigrare, per ottenere la cittadinanza, per evitare il trasferimento in un altro campo e per evitare la reazione della famiglia della ragazza compromessa.
[…] Abbiamo visto donne splendide, meravigliose nel dolore. Donne, una volta signore, che hanno accettato di pulire le case altrui, che hanno trasformato la condizione di nubile in una missione come istitutrici e insegnanti di orfani e di abbandonati, assistenti sociali presso enti assistenziali; missione che ha dato loro la possibilità di valorizzare una preziosa carica di affetto e di maternità.
Di fronte alla sventura di qualche giovane, più vittima che peccatrice, sta l’esempio luminoso di tutte le altre, e sono la totalità, che si sono conservate buone, che attraverso la “cortina di ferro” o attraverso il “muro della vergogna” hanno seguito nella povertà e nel pericolo i loro fidanzati, che nel matrimonio si sono rivelate spose dolcissime e affettuose, proprio perché hanno visto il male e hanno sofferto più delle altre. In molti casi la loro personalità si è imposta così simpaticamente nella famiglia che il marito, non profugo, ed i figli si sentono idealmente profughi.»

 

La donna profuga – dalla relazione al convegno annuale dell’AWR, Strasburgo 1965

 

«La fuga l’ha strappata dalla serenità di una vita familiare e l’ha gettata in situazioni eccezionali, spesso violente per cui le sue virtù e le sue debolezze si sono manifestate con espressioni caratteristiche.
La fragilità femminile, travolta e flagellata dalla sventura dell’esilio, si è trasformata spesso in un eroismo silenzioso e commovente. A quale tremendo collaudo hanno dovuto sottostare le sue virtù morali e fisiche! Gli ultimi 25 anni hanno offerto all’ammirazione della società una nuova, splendida figura femminile, purtroppo poco conosciuta: la donna profuga. Una donna cioè che sa ascoltare, amare, soffrire, sacrificarsi sempre e più delle altre donne, come scrive H. de Balzac in “Eugènie Grande!”: “Sentir, aimer, souffrir, se dévouer sera toujours le texte de la vie des femmes”. […]
E’ difficile per un uomo, per di più celibe, frugare nelle pieghe dell’anima di una donna, anche perché spesso si tratta di percepire, di interpretare piccoli cenni, semplici sfumature del dolore e della gioia femminile.»

 

La madre profuga – dalla relazione al convegno annuale dell’AWR, Strasburgo 1965

 

«Si può affermare che la totalità ha conservato la propria educazione civica, morale e religiosa. La madre profuga dirà perfino ai figli che ha comperato il cibo, anche se lo ha mendicato; che lavora in ufficio, anche se fa la serva.
Soffrirà nel vedersi sostituire da certe dame che distribuiscono ai suoi figli giocattoli, dolci e indumenti e chiederà il privilegio di distribuire lei, da sola, quegli oggetti come espressione del suo affetto e della sua gioia materna.
[…] Un giorno trovai in un pacco di vestiti dieci dollari e una letterina: «Cara piccola profuga, una brutta malattia mi ha stroncato le gambe. Ti mando la parte più bella del mio corredo. Corri e vivi anche per me. Mandami una tua fotografia». La piccola profuga è emigrata successivamente negli Stati Uniti ed è diventata l’amica prediletta della sua benefattrice.
[…] Nel disbrigo delle pratiche burocratiche, nell’affrontare le autorità e nell’insistere per ottenere un alloggio, una medicina, un lavoro per il marito, una borsa di studio per i figli, il visto per emigrare, la donna è spesso più intelligente, più astuta e anche più tenace dell’uomo.»

 

Il vecchio profugo – dalla relazione al convegno annuale dell’AWR, Feldkirch 1966

 

«Il vecchio -si dice- rimbambisce. Però, mentre l’infanzia trova simpatie, adozioni, molteplici maternità, il bambino vestito da vecchio incontra pietà, commiserazione, tolleranza. Non c’è un comandamento del decalogo che faccia obbligo di amare i figli, perché amarli è piacevole. C’è una fioritura spontanea, eccezionale di istituzioni che si contendono l’infanzia e la gioventù.
I congressi, la stampa, la legislazione, la politica, l’industria, l’edilizia, le iniziative benefiche e il volontariato sociale preferiscono i bambini ai vecchi. Nessuna legge italiana fa obbligo allo Stato di assistere i vecchi, privi di pensione. Dei vecchi si occupa soltanto una legge di Polizia, non per assisterli, ma per imporre il loro ricovero “anche coatto” nei casi di accattonaggio molesto.
[…] Il Cappellano, non profugo, di un campo mi confessò la sua meraviglia di fronte all’agonia serena e gioiosa di alcuni vecchi profughi i quali, rifiutati dalla società e dalla famiglia, vivono gli ultimi anni in un’atmosfera quasi mistica. Hanno la sensazione di vivere già al di là della frontiera della morte.
Si sono fatti un’immagine quasi materializzata di Dio e della Madonna. Hanno l’impressione che Essi siano gli unici amici che facciano loro compagnia. Li salutano nelle immagini levandosi il cappello, pregano a voce alta, con tono confidenziale, come se conversassero. Arrivano al punto di rispondere con entusiasmo alle preghiere degli agonizzanti che vengono recitate per loro.
Chiedono e pretendono di sentire queste preghiere con le quali il sacerdote invita la loro anima a lasciare questo mondo nel nome di Dio. Tutto ciò non è frutto soltanto della fede, ma anche di una reazione di chi, vistosi respinto e umiliato, si è attaccato disperatamente a Dio fino al punto di persuadersi di essere già Suo ospite. Per lui la morte appare come un normale spalancarsi della finestra, piena di luce, sulla sua brandina.»

 

«Le famiglie dei rifugiati hanno dovuto subire un rapido processo di trasformazione, dalla struttura patriarcale a quella strettamente coniugale, da quella agricola a quella industriale, dalla contadina alla cittadina. I vecchi, lenti e stagionati, non assimilano più. Nei Campi ascoltano gli altoparlanti della direzione, che chiamano i giovani ai corsi di qualificazione, alle scuole di lingue, agli interrogatori per l’emigrazione e per offerte di lavoro. Loro rimangono lì, al sole, appoggiati al muro della baracca come orologi arrugginiti senza lancette. Il tempo dei vecchi non ha valore e non merita di essere misurato. Hanno tentato per alcuni anni, ma poi la vecchiaia li ha bloccati, Sconsolati, si sono ripiegati su sé stessi in attesa che qualche ufficio assistenziale li raccolga e li depositi tra i rottami fuori uso.»

 

«Una bianca vecchietta di 83 anni, raggomitolata su una brandina di un Campo profughi, mi diceva con il candore di una santa: “A Roma ho un figlio che sta molto bene, perché ha sposato una ricca romana. Mi vogliono bene, ma non possono venirmi a trovare perché non hanno tempo; sono belli e io non li posso ricevere in questa povertà. Mi basta sapere che sono felici. Questi -soggiunse indicando alcune immaginette sgualcite di santini mi fanno molta compagnia”. Si commosse quando mi sfilai un mio crocifisso personale. Se lo strinse con le mani scarne sulla bocca, mormorando: “Mi mancava proprio. Quante lunghe chiaccherate farò con Lui”. Qualche mese dopo mi trovai a casa del figlio, con il triste incarico di annunciargli la morte della madre. Cominciai con una certa precauzione, manifestandogli la mia ammirazione, ma lui, sospettando che fossi venuto per ricordargli i suoi doveri, mi interruppe: “E’ meglio non disturbarla. Una famiglia moderna e attiva come la mia non tollera il carico, l’intrusione dei vecchi, degli estranei”. E la moglie soggiunse: “Io non ho sposato i genitori di mio marito. E’ finito il tempo in cui si sposavano i gruppi familiari. La nostra vita richiede libertà di movimento e non può caricarsi con il peso frenante di una vecchia”. Non ebbi il coraggio di dire che quella vecchia se n’era andata in silenzio. Non volli che la sua morte venisse profanata con un sospiro di sollievo.»

 

«L’esodo non si arresta. Qualcuno si appoggia a parenti, ad amici. A Roma due vecchietti bussano: “Sarà per qualche mese -dicono- perché il governo ci ha promesso una casa in cambio della nostra con la quale ha pagato i debiti di guerra alla Jugoslavia”. Ma l’attesa è lunga. Ogni mattina i due a braccetto vanno a messa e si comunicano. Restano sui banchi tre-quattro ore. E l’unico locale dove non si paga. Neanche il prete si accorge del loro dramma. “Pregano molto, -dice- sono buoni e devoti”. Invece sono soltanto dei decaduti, stanchi e disperati. Una mattina, dopo la comunione, si stendono sul letto con il rosario in mano, aprono il gas e scivolano a braccetto in Paradiso. Celebro i funerali nella penombra maestosa e vuota della Basilica di S. Lorenzo. Siamo in sette: i due morti, quattro beccamorti in tuta di lavoro e io. Accendo tutte le candele dell’altare. Tolgo due mazzi di fiori dai piedi di un crocifisso e li depongo sulle due casse: quelle dei poveri, grezze, rettangolari. Tengo l’orazione funebre: un colloquio sommesso fra noi tre. Alla fine arriva un frate cappuccino con un secchiello d’acqua santa e con il turibolo per incensare quelle due vite come due reliquie, consunte dalla tristezza e dalla fame.»

 

Padre Flaminio amava dipingere l’identità del profugo quasi potesse, tra i mille e mille casi tutti diversi, costituirne un’unica immagine, amalgamando in un unico dipinto tutte le sue variegate caratteristiche ed esperienze.

 

«I profughi non hanno mai dato un colore politico di parte alla loro tragedia. Non hanno mai lanciato né grida, né sassate contro le finestre delle Prefetture, neanche quando, nel 1954, hanno appreso che il consenso di Tito per il ritorno di Trieste all’Italia era stato pagato con una parte (46 miliardi di lire) delle loro proprietà abbandonate nella Venezia Giulia. Nel campo di Altamura trovo il signor Domenico di Rovigno: “Finalmente vi ho trovato. Sapete che il ministro della Guerra Pacciardi vi cerca per darvi una medaglia d’argento che vi era stata proposta in Russia?”. “Padre -risponde calmo e sorridente- la mia giacca di povero profugo non è degna di portare una medaglia d’argento. Ma dica al signor Ministro che il mio amore per l’Italia è sempre d’oro”.»

 

«Gli stati d’oltreoceano hanno creato delle quote preferenziali per farli partire. L’IRO (Organizzazione Internazionale Emigrazione) ha creato a Bagnoli (Napoli) una commissione selezionatrice. Così hanno fatto varie ambasciate. Queste preferivano i giovani, maschi, lavoratori. I vecchi erano considerati inutili. Nel 1957 sono stato convocato all’ambasciata australiana. Si cercavano 600 ragazze istriane o friulane, potenziali fidanzate dei giovani istriani, perché i matrimoni con le australiane non funzionavano. Queste dominano con la lingua, imponevano usi, costumi, cucina, educazione dei figli. L’italiano si sentiva piccolo, con due mani per lavorare, con una volontà per obbedire. Brontolava in dialetto in un angolo. Naturalmente ha rifiutato l’incarico dicendo che l’emigrazione non poteva essere un allevamento o un mercato.»

 

«Il profugo non è un emigrante. Questi è andato all’estero per ragioni economiche e può tornare quando vuole. Il profugo è come un dente sano, strappato per cattiveria da un crudele cavadenti, con brandelli di carne viva, dolorante: la casa, il benessere perduto, l’ingiustizia subita. Il giovane si inserisce facilmente nella nuova società straniera attraverso la lingua, la scuola, il matrimonio. Il vecchio emigrato si sente isolato. A casa parla solo in dialetto.
Per la strada ha paura che qualcuno gli chieda qualche cosa. In chiesa il prete è una delle tante statue di legno che muove la bocca. Il suo tempo si è fermato molti anni fa, in un paese lontano. Per noi la Patria è una parola slavata dalle politiche. Per lui ha conservato i colori vivi e freschi di tanti anni fa. Per questo i profughi hanno creato all’estero tanti circoli col nome del loro paese. Le loro feste patronali, i balli, i pranzi sociali, perfino i funerali sono rievocazioni di un passato rimasto intatto. L’ospite, sacerdote o politico, venuto dall’Italia, ascolta sorpreso. Deve cambiare il discorso che aveva preparato. Deve tirare fuori le vecchie parole che erano cadute da tempo nel fondo della sua memoria e delle quali oggi si vergogna. Forse bisogna andare all’estero per amare l’Italia.»

 

«Il primo impatto all’estero è doloroso per gli adulti. Gente e lingua nuove. Isolamento fisico, psicologico, perfino in chiesa. Un senso umiliante di inferiorità per un uomo ridotto a due braccia che lavorano in mezzo a gente che domina, che ride. Lui ha paura di essere interrogato perché non conosce la lingua. Spesso la situazione si fa pesante nelle famiglie perché i figli, attraverso le scuole e i matrimoni, si inseriscono completamente nella nuova società. Il colloquio dei figli, dei generi, delle nuore con i vecchi genitori diventa difficile. Ricevo spesso telefonate commoventi di anziani d’oltreoceano: “ma posso sfogarme finalmente nel nostro dialeto”.
[…] Sono stato oltre oceano e i vecchi non m’hanno saputo dire nulla dell’America. M’hanno riempito la testa di ricordi istriani. Guido per Roma i loro figli. La prima domanda è: “Quanto costa?”. Ma superato il primo incontro, comincia a nascere in loro la curiosità, poi l’interesse storico, intellettuale, infine l’entusiasmo: “Il Colosseo non è un grattacelo, la Cappella Sistina non è una pittura ma una creazione divina, una cucina profumata di arrosto non è un frigorifero pieno di barattoli”.»

 

«E’ commovente leggere su un giornale italiano dell’Argentina (L’Eco d’Italia del 30/6/1994) a firma dell’istriano Elio Paisan: “Non importa che l’Italia li abbia costretti ad andare a cercare fortuna fuori dalle frontiere: essi si sentiranno sempre orgogliosi di essere Italiani e sentiranno il più profondo disprezzo per coloro che rinnegano le proprie origini”.
Il loro patriottismo non si identifica né con i partiti, né con gli uomini politici italiani.
[…] La parola Patria deriva da “patrium”, terra dei padri, non dei politici. Hanno portato con sé la cultura latino-veneta. L’hanno conservata e sofferta. Sono forse più italiani degli stessi abitanti italiani.»

 

 

 

Prima puntata: biografia sintetica http://www.anvgd.it/notizie/14901-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-1-12mar13.html

Seconda puntata: vita da cappellano militare http://www.anvgd.it/notizie/14913-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-2-14mar13.html

Terza puntata: l’esperienza di cappellano militare in Corsica http://www.anvgd.it/notizie/14945-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-3-19mar13.html

Quarta puntata: i ricordi della sua Neresine http://www.anvgd.it/notizie/14961-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-4-22mar13.html

Quinta puntata: l’impegno nell’ANVGD http://www.anvgd.it/notizie/14987-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-5-26mar13.html

Sesta puntanta: le Foibe http://www.anvgd.it/notizie/15014-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-6-02apr13.html

Settima puntana: l’Esodo giuliano-dalmata http://www.anvgd.it/notizie/15034-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-7-04apr13.html

Ottava puntata: Trattato di Osimo e rapporti con la ex Jugoslavia http://www.anvgd.it/notizie/15055-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-8-09apr13.html

Nona puntata: L’assistenza agli Esuli http://www.anvgd.it/notizie/15080-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-9-11apr13.html

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