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2013, l’anno di Padre Flaminio Rocchi (4) – 22mar13

Continuiamo il ricordo di Padre Flaminio Rocchi, nel centenario della nascita e decennale della morte, con questo quarto appuntamento tratto dal libro biografico “Padre Flaminio Rocchi: l’uomo, il francescano, l’esule”, edito dalla ANVGD. Dalla fine della guerra al sacerdozio, dal ritorno a Neresine alla splendida ricostruzione di Gabriella Fiorentin.

 

 

Al termine degli eventi bellici Padre Flaminio cerca di rimettere insieme i tanti pezzi della sua famiglia, dispersa con l’Esodo. Ma qualcuno manca all’appello.

«La famiglia di mia sorella Nives, cinque persone, perseguitata, trattenuta abusivamente dagli slavi nell’isola di Lussino, ha raggiunto la libertà appena nel 1960. E’ stata ricoverata a Trieste nella Risiera di S. Sabba, che poi è stata dichiarata monumento nazionale perché i tedeschi nel 1944 l’avevano trasformata in un lager con forno crematorio. E’ stata usata come campo profughi. Lo stesso direttore, un ottimo funzionario del Ministero dell’Interno, si è vergognato di accompagnarmi a visitare mia sorella: una cella con una porta piccola e chiavardata, con un oblò e sulle pareti interne ancora graffiati nomi, croci e stelle di David.»

Negli anni ’60 è nel pieno delle sue attività assistenziali. Ma non dimentica mai la sua vocazione sacerdotale francescana. Per il suo 25° di sacerdozio, celebrato al Santuario di Loreto a un anno dalla morte di suo padre Rocco, compone questa preghiera.

LODATO
sii mio Signore per il saio di San Francesco
che hai posto sulle mie spalle.

LODATO
sii nel festoso ricordo di coloro che venticinque anni fa
mi hanno accompagnato al Tuo altare a Neresine
e che oggi il vento del male
ha dispersi per tutti i mari e per tutti i lidi.

LODATO
sii nel sacrificio dei soldati d’Italia che io ho deposto
sotto i fiori del campo nell’azzurro del Tuo mare.

LODATO
sii nell’esodo dei profughi adriatici
che sulla scia tracciata dalla Tua Santa Casa
da Tersatto a Loreto hanno salvata la fede e la libertà.

LODATO
sii nella gioia della mia vecchia madre
e nel riposo eterno di mio padre
che ha deposto le sue stanche ossa di profugo.

LODATO
sii mio Signore nelle mie ultime speranze:
carità per gli esuli, santità per il mio Sacerdozio
ed infine un piccolo angolo del Tuo grande Paradiso.

Neresine (Pola) 1. agosto 1937
Loreto (Ancona) 15 agosto 1962

Dopo decenni di assenza dalla sua Neresine, Padre Flaminio vi ritorna per la prima volta nel 1975. Ma questo evento che doveva essere di gioia, si trasforma ben presto in un piccolo caso internazionale.

«Un poeta esule diceva che le sue lacrime non erano di pianto perché nessuno le comprendeva. Io vivo a Roma da oltre quarant’anni, ma la mia cattedrale non è la monumentale basilica di San Pietro. E’ la modesta pieve del mio paese, dal quale la polizia mi ha cacciato nel 1975. Sono venuti da Fiume cinque giudici e m’hanno cacciato perché aiutavo i profughi che alla “democratica Jugoslava avevano preferito l’Italia imperialista”. Ho accettato la condanna come un elogio. Prima di andarmene, nel pomeriggio, ho visitato la chiesa, vuota. E’ la poesia francescana del mio conventino povero di Neresine, posato su una scogliera bianca e luminosa.

Mi sono affacciato sul cortile della casa dove sono nato e dove sono vissuto felicemente, ma dall’alto della scala d’ingresso della casa la voce del nuovo inquilino ha gridato: “aide!” (vattene!). Cosi prima di mezzanotte ho abbandonato con un traghetto croato le acque territoriali jugoslave. Mi è dispiaciuto anche perché sono l’unico sacerdote vivente, nato a Neresine. Ma il Vangelo ha detto duemila anni fa: “nessuno è profeta a casa sua”. Non voglio disturbare nessuno anche se il richiamo delle proprie radici è forte e doloroso

Il richiamo della natia Neresine continua a essere fortissimo. In occasione dei cinquant’anni di sacerdozio torna per la seconda volta nella sua terra. L’incontro, questa volta libero da condizionamenti e imposizioni ideologiche, è sentimentalmente indescrivibile.

«Nel 1987 sono ritornato a Neresine per vedere il Convento dove è nata la mia vocazione francescana, per baciare l’altare sul quale cinquanta anni prima avevo celebrato la prima Messa. Su un vecchio harmonium ho suonato la Messa “Te Deum laudamus” di Perosi, che 50 anni prima era stata cantata per la mia prima Messa. Poi ho passato un’ora, sempre da solo, nel Cimitero. Ho sorriso e ho parlato con le fotografie di parenti e di amici che tanti anni prima avevano assistito a quella Messa. E’ stata una conversazione spirituale, serena e allegra.»

Graziella Fiorentin è un’apprezzata scrittrice della nostra terra, che ha sempre saputo fotografare con la parola i drammi, le gioie e le esperienze di quel periodo buio della nostra storia. Padre Flaminio le racconta la sua esperienza del ritorno a Neresine. Lei ne trae un piccolo straordinario capolavoro di narrativa che arriva davvero al cuore di chiunque ha vissuto l’esperienza del ritorno nel proprio paese natale; ve lo propongo integralmente.

«Cinquant’anni! Esattamente cinquant’anni prima era stato ordinato sacerdote e aveva celebrato la sua prima Messa là, nella sua isola, nel suo piccolo paese in riva al mare, nella stessa minuscola pieve dove era stato battezzato. Era stato un giorno di festa quello! Lui era trepidante e felice, contornato dalla folla festosa dei suoi compaesani, dei parenti, degli amici… Erano passati cinquant’anni e da quasi altrettanti aveva dovuto lasciare il suo amato paese per diventare uno degli oltre 300.000 esuli italiani che avevano dovuto fuggire, pena la vita, dalle loro terre italiane dell’Istria e della Dalmazia o avevano spontaneamente scelto l’esilio per non tradire la propria nazionalità, la propria fede, le tradizioni e la cultura dei padri.

Esiliato in patria, ma lontano, precluso per sempre al suo paese, alla sua casa, a quelli che erano rimasti: vecchi che nulla desideravano fuorché morire nella propria casa, contadini che nulla avrebbero avuto se gli veniva tolto il loro magro pezzo di terra. In quei lunghi anni molto aveva scritto di Storia, sempre aveva cercato di aiutare i fratelli di sventura.

Aveva tentato di riunire le famiglie, spesso divise, disorientate e confuse, sparse per tutta l’Italia e quelle -molte- emigrate all’estero. Aveva portato alle autorità la voce dei derelitti, abbandonati a sé stessi, chiusi nei campi profughi, senza lavoro, senza soldi, senza futuro. Aveva fondato un foglio, un giornale attraverso cui chiamare, parlare, chiedere, raccontare, consolare quella grande famiglia dispersa. Perciò era particolarmente inviso ai nuovi padroni della loro terra. Chi non accetta la verità e non ha amore per il prossimo non può che odiare. Ora, finalmente poteva tornare per una brevissima visita, come un turista frettoloso…

Perché voleva tornare? Perché voleva festeggiare là il 50° di sacerdozio? Ne, ne… no! Non se ne parlava nemmeno… Cerimonie?! Festeggiamenti?! Per uno che aveva preferito la “fascista” Italia alla democratica Iugoslavia!! Nemmeno per idea… A uno che aiutava i “fascisti”?! Neanche per sogno! Breve visita, quasi in incognito, e ringraziasse la bontà dei democratici iugoslavi…

Aveva sorriso… Straniero nel suo paese e indesiderato… Niente Sante Messe commemorative, niente feste… niente di niente… Era arrivato in sordina e l’unica cosa permessa era guardare, saziare gli occhi dei colori della sua isola, riempirsi i polmoni dei profumi intensi della terra e delle erbe odorose che nascevano spontanee fra le rocce e rievocare nella mente la sua vita, così com’era stata fino al giorno tragico dell’esodo.

Ora abitava in una smisurata città e il mare era pure abbastanza vicino, ma non era il mare della sua isola… Lo infastidivano un po’ quelle case, stivate come sardine, in fila vicino alla spiaggia. E anche l’arenile gli era estraneo, così ampio, sabbioso, senza rocce né alberi. Il mare smoriva sulla riva tingendosi di giallo e non gli ricordava per niente il mare turchese, limpido e pulito della sua isola.

Ora, appena montato sul traghetto, si era abbarbicato a prua e non si stancava di guardare quel blu cobalto orlato, ai due lati della prua, di un merletto candido, spumeggiante che si stemperava in screziature di topazio dov’era sfiorato dal sole. Respirava con voluttà l’aria frizzante, odorosa di salmastro e si lasciava accarezzare i capelli brizzolati dal venticello fresco di libeccio mentre guardava avvicinarsi la costa alta, rocciosa dell’isola, coperta, a tratti, dai pini che crescevano lungo il pendio scosceso quasi fino all’acqua.

Dopo lo sbarco, risalito nella corriera, si era seduto davanti, nei primi posti, per poter spaziare con lo sguardo il più lontano possibile, oltre la strada che correva lungo il crinale, oltre i muretti a secco, fino alle bianche pietraie che cadevano, da entrambi i lati, quasi a picco verso il mare. E il mare sembrava anche più azzurro nel contrasto con le rocce abbaglianti, coperte qua e là dal tappeto verde tenero della salvia e dalle macchie gialle dell’elicriso.

Aveva anche abbassato per un attimo il finestrino per assaporare quegli odori intensi ed antichi. Avevano incrociato, quasi al culmine dell’isola, in prossimità delle pinete, una nube di farfalle. Volavano alla cieca, ebbre di sole, con le ali azzurre sfavillanti. Avevano invaso anche la carreggiata e la corriera passava in un tunnel turchino. Era una spettacolo unico, affascinante, quasi magico. Era come se il cielo si fosse spezzettato in minutissimi coriandoli luminosi per ricoprire la terra, così numerosi che la strada fu ben presto dissimulata da un tappeto cilestrino di ali spezzate.

Sic transit gloria mundi!”, pensò il sacerdote con un senso di pena. Osservava le nuvole, leggere come spuma, passare nel cielo e seguiva il volo lento e solenne dei grifoni che si innalzavano e planavano lasciandosi trasportare dal vento.

Non è cambiato nulla, per fortuna” – mormorò tra sé – “passano gli anni, i secoli, gli uomini si distruggono, si ammazzano, la natura riesce a mantenersi ancora intatta”.

Viene in gita sull’isola? La conosce? – Lo scosse la voce incuriosita di una donna.

Rimase un po’ sconcertato: che cosa poteva dire e che cosa non doveva dire? La verità, ecco, avrebbe detto la verità…

Se conosco questi posti?! – Sorrise divertito. – E’ casa mia, ci sono nato e vissuto fino a cinquant’anni fa.

La donna lo guardò più attentamente ora, con curiosità più marcata. Era anziana e scrutava il suo viso cercando un ricordo.

C’è un convento di francescani infatti qua … Ci abitava, là?

Sì, anche, ma io sono nato a… ecco, eccolo il mio paese ! – si interruppe additando davanti a sé.

L’isola era finita bruscamente sul ponte che la univa alla sponda dell’altra isola, Lussino, separate soltanto da uno stretto canale dove il mare ad occidente si mescolava con quello ad oriente.

Vede, quello è il campanile del mio paese! – e intanto indicava la punta aguzza che spuntava fra gli alberi e poi le case distese sul pendio degradante verso il mare.

Ah, ma allora ho capito… lei è…

Ma il frate non l’ascoltava più. Con una stretta al cuore faticava a trattenere lacrime importune che tentavano di bagnargli le ciglia. Dopo tanti anni… Istintivamente balenarono nella sua mente le parole dolci e nostalgiche del coro del Nabucco. “O mia patria sì bella e perduta...”

La corriera si fermò. Il sacerdote salutò la donna e scese. Si guardò intorno con un sospiro e si avviò lungo la strada che portava alla casa dei suoi parenti. Lo stavano aspettando e fu un coro di saluti, abbracci e lacrime.

Pochi giorni! Troppo pochi giorni per rivivere una vita, per calarsi nuovamente nella realtà del suo paese. Ed era già il giorno dell’anniversario. Il vecchio frate camminava assorto e i suoi sandali aperti sui piedi nudi, da francescano, battevano lenti sulle antiche pietre. Era un primo pomeriggio assolato e sonnolento. Le strade erano vuote e le persiane accostate lasciavano traspirare il lento respiro dei paesani abbandonati al sonnellino pomeridiano.

Quasi inconsciamente arrivò davanti alla chiesa. Provò con il palmo della mano: il portone era aperto. Entrò. La chiesa era deserta, il silenzio profondo, quasi sonoro. Timidamente si avvicinò alla sacrestia che aveva la porta spalancata. Non c’era nessuno. Entrò ed ecco lì, in ordine e piegati con cura i candidi camici. Ecco i paramenti sacri appesi alle grucce. C’era anche una vecchia pianeta, chissà! forse la stessa che quel giorno, 50 anni prima, lui aveva indossata per la prima Messa.

Accarezzò dolcemente, con nostalgia, il serico disegno dorato, sfiorò con le labbra la croce ricamata: profumava d’incenso e di tempi passati. Alfa e Omega era scritto. Inizio e fine. Entrambi vicino alla Croce… Girò lo sguardo intorno alla ricerca di cose note e mai dimenticate. Si affacciò alla porticina che dava sull’altar maggiore. Ancora di fianco ad essa pendeva la campanella di inizio messa. Sorrise: quand’era ragazzino era compito suo suonarla e lo faceva con tanto impegno che il parroco brontolava:

Così la stacchi, Padre Santo! Se lo fai ancora ti tolgo l’incombenza e la passo ad un altro…

Ma lui, pieno di entusiasmo, continuava a scampanellare e l’incarico continuava ad essere suo. Si avvicinò anche ora e tirò piano la cordicella: il suono argentino si sparse lungo la navate sfiorando gli antichi banchi consunti e tarlati.

Accarezzò con tenerezza la porticina del tabernacolo, mormorando teneramente: “Sono qua, mio Gesù, con te come allora, come sempre”. Fece il giro degli altari parlando sottovoce con le antiche statue della Sacra Famiglia, dell’Addolorata, di S. Antonio. Quante parole note, quante preghiere consuete e dolci da ripetere…

Sull’orchestra si sedette davanti all’armonium, sfiorò i tasti ingialliti. Sul bordo, quasi preparato per lui, era posato uno spartito sdrucito. Lo aprì facendo crocchiare le pagine indurite: era proprio la Messa del Perosi, quella che il coro aveva cantato per lui 50 anni prima. Seguì con gli occhi le note nere sul foglio avorio e cominciò a suonare. Le note si alzavano limpide e solenni e salivano, oltrepassavano le vetrate e il soffitto, diritte verso il cielo.

Vagò con lo sguardo lungo la navata sognando le voci contadine di allora e quelle argentine dei bimbi avvolte dalle volute dell’incenso e ogni voce aveva un volto, un nome, mai dimenticato. E tutto era come allora: il tempo, la guerra, il dolore, la morte non avevano cancellato l’entusiasmo, la gioia traboccante del suo cuore. Ancora valide erano le promesse di essere un buon sacerdote, di aiutare il prossimo, di portare il vangelo nel mondo e viverlo ogni giorno della sua vita.

All’improvviso senti cigolare il portone d’entrata della chiesa. Una lama di sole entrò delineando una figura. Il portone si richiuse con un tonfo lasciando nell’ombra la persona ferma in fondo alla navata. Il frate staccò le mani dalla tastiera. Le voci e i volti rientrarono nel nulla, l’ultima nota si perse nel silenzio come un punto di domanda senza risposta. Si alzò in fretta e scivolò lungo il muro confondendosi con le ombre e uscì in silenzio dalla porta laterale svanendo nel nulla quasi come le voci e i volti di quei fantasmi che poc’anzi aveva evocato.

C’era ancora silenzio e solitudine sul sagrato e sulla via. Ancora il sole brillava dorato e scintillante nel suo lento cammino verso occidente. C’era ancora una strada, quella strada che il frate sentiva di dover imboccare e che portava alla dimora di quelli che ora non c’erano più. Come su quasi ogni isola il cimitero era a due passi dal mare. Chi è nato al mare, chi ha vissuto sul mare, chi ha corso il mare, chi ha respirato il mare, chi ha succhiato la sua salsedine come il latte della madre, chi ha il mare nella mente e nel sangue e la sua voce negli orecchi, non può dormire il suo sonno eterno lontano da lui. Isole e mare sono un tutt’uno inscindibile in una complementarità perfetta e le une non possono esistere senza l’altro.

Lo avevano capito le donne che anticamente avevano riempito di terra un grande quadrato in riva al mare. Chi riposava là doveva poter sentire la canzone del mare e il suo profumo. Non era possibile calare il mare nelle loro tombe come si faceva con gioielli, monili, cose usuali: era quindi giusto portare gli uomini vicino al mare. Le donne avevano circondato quel quadrato di soffice terra con mura a secco alte e spesse perché la furia di Bora e Scirocco non potessero disturbare il riposo dei morti. Avevano assestato la terra morbida come un grande letto e solo le brezze gentili che portavano il canto dolce del mare potevano sfiorare le croci che segnavano l’ultima casa di ciascuno. Piante selvagge e odorose crescevano lungo le mura: il finocchio selvatico, il rosmarino, l’elicriso. I fiori azzurri come il mare delle campanule e della lavanda, i colori, gialli e aranciati come il tramonto, dei fiori del crisantemo ornavano le tombe.

Il frate camminava lentamente fra le fila di lapidi e la terra, calda di sole, che scivolava dai tumuli, penetrava nei calzari e fra le sue dita come una carezza. Quanti nomi noti, quanti amici, quanti ricordi… Talvolta, in quel suo lento peregrinare, si fermava a riposarsi e sedeva sull’orlo di qualche pietra tombale. Guardava quei nomi, fissava quegli occhi che sembravano sorridergli dalle foto sbiadite e parlava con la signora Caterina, con la piccola sarta Dumiza, col vecchio Bartolo, col nostromo Domenico…

Ricordava loro i tempi passati, i piccoli avvenimenti quotidiani, le consuetudini che li distinguevano e la loro amicizia reciproca, piccole cose amorevoli che avevano dato un’impronta unica e irripetibile a ciascuno. Guardava quei volti che 50 anni prima lo avevano ascoltato commossi, là nella pieve, alla sua prima Messa. Riconosceva tutti, parlava a tutti quegli amici e gli sembrava di essere a sua volta riconosciuto. Voci, parole, ricordi, raccomandazioni gli risuonavano nella mente e quei volti dalle foto sembravano salutarlo, seguirlo con lo sguardo in quel suo pellegrinaggio di memorie.

Prima di uscire si fermò sul cancello, si voltò, fece un ampio gesto di benedizione che comprendeva tutti, come quella prima volta dall’altare, come sempre nella memoria e augurò loro un viaggio sereno sulla nave di luce verso l’azzurro infinito. Uscì, con un sospiro si avviò. Guardò il cielo azzurro, il barbaglio dorato del mare al tramonto e di colpo si fermò, stupito e quasi incredulo, perché in quell’istante si era reso conto di essere felice.

Quel giorno infatti aveva avuto la più bella commemorazione che un sacerdote potesse avere. Tutti! Ecco cos’era quella pace che gli fioriva dentro! Li aveva rivisti tutti: i vivi e quelli che non c’erano più. Non c’erano state celebrazioni, discorsi, brindisi, è vero, ma quello che conta veramente l’aveva avuto. Aveva avuto l’abbraccio fraterno dei sopravvissuti e quello amorevole di coloro che vivevano nella pace e nella gioia. Potevano pure decidere, comandare, proibire, urlare, imprecare i prepotenti

Signori della Guerra e dell’Odio, coloro che credono di essere i padroni assoluti della vita degli altri! Lui, l’umile frate francescano aveva avuto la festa più bella, più completa, più dolce che mente umana potesse pensare. Tutti! Volti, voci, vite vissute, preghiere, canti, amore: aveva avuto tutto e nessuno avrebbe mai potuto rubargli la felicità di essere tutt’uno con quelli che aveva amato e col suo Signore. Sorrise e un canto di ringraziamento gli salì alle labbra mentre, rinfrancato e pieno di gioia, riprendeva con passo sicuro il suo cammino verso il suo esilio e il suo compito quotidiano.

Il sole calava e spariva dietro il crinale dell’isola e già le prime ombre invadevano le strade e le case ancora calde di sole del suo paese. Ma ora il vecchio sacerdote non era più triste: una gioia consapevole gli scaldava il cuore come un sole inestinguibile.

“Finché tu vorrai, mio Signore… io sono pronto... – mormorò.

Mi piacerebbe ritornare fra loro alla fine del mio tempo e riposare vicino a loro, tra amici semplici e buoni, vicino al mare. Forse però il mio destino è altrove e sulla mia tomba anonima scriveranno “Pulvis…” Ma tu sarai con me, ora e sempre. Fra quelle tombe ero un uccello che canta su un cipresso, una lucertola che sogna su una lapide calda di sole, ma essere con te è essere uomo, essere tuo figlio. E’ bello, poetico, rassicurante, gioioso essere e sentirsi francescano. E’ bello avere fede in te, è bello sapere che nessuno potrà rubarmi questa gioia.

Padre Flaminio allargò le braccia in un abbraccio che comprendeva il mondo, sorrise ancora e riprese a camminare. I suoi sandali battevano ora sicuri e veloci le pietre della via.»

 

 

Disponibili anche:

 

La prima puntata con la biografia sintetica http://www.anvgd.it/notizie/14901-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-1-12mar13.html

 

La seconda puntata e la vita da cappellano militare http://www.anvgd.it/notizie/14913-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-2-14mar13.html

 

La terza puntata sull’esperienza di cappellano militare in Corsica http://www.anvgd.it/notizie/14945-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-3-19mar13.html

 

 

 

Negli anni ’50 Padre Rocchi (primo a sinistra) già collabora con l’ANVGD

 

 

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