di ENZO BETTIZA su La Stampa del 21 gennaio 2011
Un avvenimento di storica serietà nazionale e di significativa rilevanza intereuropea è passato purtroppo sotto silenzio, quasi inosservato, tra le fragorose miserie della politica italiana e i disagi comunitari provocati a Bruxelles e Strasburgo dai primi passi della presidenza ungherese dell’Unione. Mi riferisco alla visita di Stato appena conclusa dal presidente della Slovenia, Danilo Türk, e alla cerimonia del suo incontro al Quirinale con il presidente Napolitano.
Senza tema di retorica ho definito «storica» la circostanza perché questo primo soggiorno a Roma di un capo di Stato della limitrofa repubblica slava segna emblematicamente, sotto molti aspetti, la chiusura postuma e definitiva di poco meno o poco più di mezzo secolo di storia. Storia tragica, a momenti truculenta, in un’altalena di aggressioni e ritorsioni reciproche con connotati ideologici e razziali sempre più disumani. Nulla venne risparmiato alle popolazioni lungo l’implacata fascia di confine tra Venezia Giulia e Slovenia, mentre, più giù, Zara, rasa al suolo come Dresda dai bombardamenti, si vuotava completamente di tutti i suoi cittadini di lingua italiana. All’incirca dal 1920 fino al secondo dopoguerra il terrore, l’odio muto, la paura della propria stessa identità anagrafica erano dilagati per tre decenni a Trieste, a Fiume, nell’Istria. La paura serpeggiava di volta in volta da una comunità etnica all’altra.
Prima toccò agli slavi subire i colpi feroci degli squadristi dannunziani. Attentati incendiari nel centro triestino, umilianti purghe all’olio di ricino nel retroterra istriano, offensive pulizie linguistiche fra i carsolini sloveni, infine occupazioni militari totalitarie e xenofobe da Lubiana fino alle Bocche di Cattaro.
Poi, toccò agli italiani il contraccolpo vendicativo delle milizie partigiane jugoslave. La Belgrado comunista, protetta con discrezione da Stalin e sostenuta con ammirazione da Churchill, orgogliosa di aver sconfitto da sola gli invasori dell’Asse, desiderava infliggere all’Italia in ginocchio una cocente rapina territoriale incorporando, insieme con l’Istria e Fiume, anche Trieste e l’intera area goriziana. In un accesso d’irrefrenabile e spietata megalomania, il maresciallo Tito, coadiuvato dal capo della polizia politica Rankovic e dal responsabile della propaganda Milovan Gilas, all’epoca tutti convinti nazionalstalinisti, diede corso al suo piano di conquista con metodi prettamente bolscevichi: cacciata e sterminio dei nativi italiani indesiderabili, pulizia etnica insomma, seguita da un capillare trapianto di nuove popolazioni.
L’operazione di ricambio, affidata materialmente alle avanguardie in parte politicizzate in parte brade dell’esercito titoista (bosniaci, serbi, montenegrini, macedoni, albanesi), ebbe per sfondo il caos finale della guerra, per teatro le principali città istriane più Trieste e Gorizia, e per poligono patibolare le voragini del Carso. Morirono atrocemente migliaia di italiani, soprattutto dell’Istria, ma anche molti sloveni e croati considerati alla rinfusa «fascisti» o «collaborazionisti». A Zara, già cumulo di macerie, un nucleo della storica dinastia imprenditoriale Luxardo venne calato con una gabbia nelle acque del porto e lasciato lentamente affogare.
Terrore e disperazione spinsero all’esodo di massa circa trecentocinquantamila profughi istriani, quarnerini e dalmati. Non un malvivente tra loro. Molti laureati poliglotti, molti operai specializzati, in particolare carpentieri; non tutti si fermavano a Trieste; diversi si dirigevano verso il Veneto e la Lombardia, dove, con la loro istruzione e l’innato spirito di disciplina, contribuivano all’opera di ricostruzione dell’Italia del dopoguerra. L’esperienza più amara doveva toccare agli esuli che, scesi fino a Bologna, si videro negare un bicchiere d’acqua dal personale comunista della stazione. «Ai fascisti», si sentirono dire, «non diamo da bere».
Buona parte di quei fuggiaschi, scampati alla morte o al carcere, nelle cui vene circolavano ancora i globuli di civiltà di uno Stato di diritto come l’Austria, non avevano nulla di fascistico nel comportamento educato e nella mentalità mitteleuropea; erano, loro stessi, vittime, piuttosto che coadiuvatori o servi del fascismo di frontiera. Erano il residuo spaesato e involontario di una storia triste, che li aveva coinvolti insieme col vicino di casa sloveno o croato, e che andava ricondotta a quella che con neutro eufemismo la diplomazia fascista chiamava accademicamente «la questione orientale» (quasi una prolunga additiva dell’annosa «questione meridionale»).
Proprio tale «questione», produttrice di sciagure infinite tra stirpi confinanti, spesso consimili e bilingui in virtù di matrimoni misti, si è simbolicamente estinta nel dialogo e nel lessico europeo fra i presidenti Napolitano e Türk. Il terzo Presidente della Slovenia, prima nazione postcomunista che ha adottato l’euro e la prima dell’Est che ha assunto nel 2008 la presidenza semestrale dell’Ue, non poteva trovare un interlocutore migliore: Napolitano aveva presieduto la commissione costituzionale del Parlamento europeo dal 1999 al 2004, un’epoca decisiva per l’Europa con il varo della moneta unica e l’allargamento ai Paesi ex comunisti. Non a caso, nel brindisi d’onore al Quirinale, il padrone di casa ha voluto aggiungere agli auguri per la Slovenia anche un caloroso saluto alla Croazia che, secondo ambienti informati, potrebbe varcare la soglia dell’Ue nel 2012. Türk, da parte sua, ha confidato ai giornalisti di aver proposto a Napolitano la costruzione di «un comune parco della pace» da Caporetto a Duino, dove, sul fronte della Prima guerra mondiale, morì un milione di europei: tra cui moltissimi italiani agli ordini di Cadorna, e molti slavi agli ordini del feldmaresciallo von Borojevic d’origine croata.
Francesi e tedeschi commemorano da tempo, insieme, i loro cimiteri di guerra. I tre capi di Stato dell’Italia, della Slovenia e della Croazia hanno fatto qualcosa di simile nell’incontro di Trieste del 13 luglio 2010, scandito dagli accordi solenni, sotto la bacchetta di Riccardo Muti, d’un coro di giovani italiani, sloveni e croati. Sulla Piazza dell’Unità di quello che fu il grandioso emporio marittimo dell’Adriatico conteso, aleggiavano, in quel «momento magico» secondo la definizione di Napolitano, tutte le vittime del Carso: tutti gli innocenti caduti, o assassinati, dalle trincee del 1915 alle foibe del 1945. Se ne riparlerà più a fondo il 10 febbraio, giorno dedicato dal Presidente della Repubblica alla memoria, al ripensamento e alle verità di una tragedia finita.