Lucio Toth, nella veste di vicepresidente della FederEsuli, replica a Sergio Romano che sulla sua rubrica Lettere al Corriere del 17 maggio scorso interviene con alcune considerazioni sulla entità e sul ruolo della Dalmazia nel processo risorgimentale italiano.
È con un senso di sconforto – originato dalla Sua autorevolezza mediatica – che ho letto le Sue ruvide osservazioni, al limite del disprezzo, sulla Dalmazia e sul ruolo storico della Repubblica di Venezia, riportando le parole di un uomo che più che studioso e conoscitore delle cose di cui parlava era soprattutto un feroce polemista che difendeva le sue idee. Mi hanno ricordato la nota espressione «quattro sassi» con cui tanti italiani hanno definito la mia terra natale, per giustificare a se stessi la vergogna di averci abbandonato più di una volta, noi, italiani di Dalmazia, in balìa dei nostri nemici. Venezia non lo aveva mai fatto.
È ovviamente vero – come lo è per ogni potere politico – che la Repubblica di San Marco perseguiva in Dalmazia, come in Istria in Grecia o in Cadore, i suoi interessi mercantili, politici, militari. Ma è anche vero che ha difeso per secoli quella lunga fascia costiera dalle ricorrenti ondate di barbarie balcanica, soprattutto dopo l’invasione islamica, che i cristiani d’Europa sembra non abbiano apprezzato molto. Nella memoria colletiva di greci, serbi, albanesi, bulgari, croati o spagnoli la liberazione da quel giogo è valutata positivamente. Naturalmente potrebbero anche sbagliarsi. Ma nell’anima popolare così è.
Così nella memoria dei dalmati, non solo italiani, il ricordo di Venezia resta un ricordo positivo, che le polemiche scioviniste slave e le nostre analoghe strumetalizzazioni non hanno offuscato. Le imponenti fortificazioni, gli acquedotti, le logge e i palazzi neogotici e rinascimentali ancora oggi richiamano nelle nostre cittadine turisti e amanti delle arti, così come i polittici e i teleri dei grandi pittori veneti che i ricchi dalmati potevano commissionare. Le nostre città avevano in epoca veneta pavimentazioni e fognature che non tutte le città europee potevano permettersi.
Neppure la più faziosa propaganda iugoslava aveva mai usato le parole di Prezzolini per descrivere una terra che – come altre regioni marginali d’Europa – era sì povera e in alcune plaghe barbara e devastata dalle continue guerre contro nemici comuni, ma era costellata di città costiere che erano ben più di «borghi» se costituitavano diocesi contese tra Oriente e Occidente. Se Zara e Ragusa furono rivali di Venezia nei secoli del Medio Evo, quando erigevano le loro splendide cattedrali, qualcosa di più di miserabili borghi dovevano essere.
Né può essere vero che alla fine del Settecento, quando la Repubblica morì di vecchiaia e di inettitudine, la Dalmazia fosse così mal ridotta se l’Austria e Napoleone se la contesero e il generale Marmont, duca di Ragusa, tanto amava le sue proprietà dalmate da tradire il suo imperatore. I piccoli teatri «nobili» e i numerosi caffè che ornavano le città dalmate, pur minuscole su sottili lingue di terra, come gli opifici che patrizi locali o imprenditori forestieri vi impiantavano, erano il segno di una civiltà di costumi che il viaggatore straniero ammirava, stupito di trovare tanta grazia ai confini remoti d’Europa.
Se Prezzolini cento anni fa avesse letto di più o si fosse degnato di andarci si sarebbe fatto un’idea più obiettiva su ciò di cui parlava. Le ricerche di questi ultimi anni negli archivi di Venezia, di Vienna e delle stesse città della Dalmazia parlano di una realtà ben diversa, che Prezzolini certo non poteva conoscere e che comunque avrebbe ignorato pur di difendere le posizioni assunte nel 1915.
Se Venezia fosse stata così avida e odiata i dalmati non avrebbero compianto la sua fine come nel famoso discorso di Perasto del conte Viscovich o in quello che più sotto Le riporto. Il «partito marcolino» rimase vivo in Dalmazia per tutta la prima metà dell’Ottocento, per lasciare poi posto al fiero autonomismo degli italiani di Dalmazia e al finale irredentismo, che Prezzolini derideva. Due recenti volumi di Luciano Monzali, dell’Università di Bari, ne sono testimonianza documentata e obiettiva.
Credo che meriteremmo più rispetto, se non altro per i tanti dalmati che si sono sacrificati nelle guerre del Risorgimento e nei frequenti conflitti dell’Italia del Novecento, fino alla lotta di Liberazione.
Lei stesso, Signor Ambasciatore, aveva scritto anni fa: «L’Italia che all’alba della sua unità si chiedeva con tanto calore quale fosse la sua lingua era paradossalmente molto più grande del regno. Per l’influenza dei suoi Stati dall’alto Medioevo in poi e per le migrazioni dei suoi abitanti attraverso il bacino mediterraneo, l’italiano era parlato in Corsica, in Nord Africa, a Malta, nel Levante, in Dalmazia, nelle isole dell’Egeo, in Asia Minore. In taluni di questi paesi essa era lingua ufficiale […]» (Storia d’Italia dal Risorgimento ai nostri giorni, Longanesi, Milano 1998). Lei sa bene che l’italiano era lingua ufficiale in Dalmazia fino alla fine dell’impero austro-ungarico. Naturalmente – come osserva Tommaseo nel suo Dizionario della lingua italiana – la parziale italianità della Dalmazia non era di per sé titolo a dominazione.
Le offro ora, come «veneto di Terraferma», queste ultime righe:
«Staccate il primo di luglio le venete bandiere nella cittadella e nella piazza delle Erbe in Zara, venivano portate sopra due bacili da due capitani con accompagnamento di due schiere di militi, e a tamburo battente, alla piazza dei Signori, ov’erano attese da tutta la milizia veneta, che ancora vi si trovava. Presentate al sergente generale Antonio Stratico, questi tenne un affettuoso discorso sul doloroso motivo che quel giorno li convocava, e consegnandole ai colonnelli…furono portate in processione lungo la via Longa, fra il fragore dell’artiglieria, fino alla cattedrale e deposte sull’altar maggiore. Dopo il Te Deum e la orazione pel nuovo imperatore, lo Stratico, avanzatosi all’altare, baciava con fervore quelle bandiere lagrimando di commozione e l’esempio era seguito dagli altri ufficiali… e da numero immenso di popolo, tanto che esse n’erano veramente bagnate, esempio non che mirabile, unico di affettuosa sudditanza». (Samuele Romanin nella «Storia documentata di Venezia» del 1854) La data è il 1° luglio del 1797.
Lucio Toth