Josip Broz Tito, un imperatore nella migliore (ma forse, visto il personaggio e le sue azioni, sarebbe più opportuno parlare di “peggiore”) tradizione asburgica. Altro che presidente del popolo: lui che amava presentarsi come il buon padre-nonno, il paladino dei lavoratori e l’anticapitalista, il pacifista, il terzomondista e quant’altro contribuì negli anni a creargli l’immagine di comunista (dittatore) “dal volto umano”, in effetti non ambì ad altro che diventare il nuovo “caesar” dei Balcani delle innumerevoli nazionalità. Alternando spesso il bastone alla carota – come appunto aveva visto fare Francesco Giuseppe, sotto la cui epoca era nato e diventato maggiorenne –, impose sovente la sua autorità-volontà con la mazza piuttosto che con lo scettro, però senza mai smettere, nei suoi modi di fare con l’ester(n)o e nell’outfit, l’abito dell’autentico “gentiluomo mitteleuropeo”.
E, in un certo senso, nell’ottica “asburgica” si potrebbe spiegare anche il suo rapporto altalenante nei confronti delle litigiose etnie della regione, costrette a riporre asce da guerra e scheletri del passato negli armadi per mettersi a fumare con lui la “pipa” della convivenza. Internazionalista di comodo e solo a parole, usò invece i vari nazionalismi balcanici conscio del loro potere mobilitante, prima in fase di costruzione del suo Stato e successivamente, istigando gli uni contro gli altri – ricordiamo il “divide et impera”? – per tenere salde le redini del potere. La sua polizia segreta e al contempo l’intelligence – prima l’Ozna (Odeljenje za Zaštitu Naroda – Dipartimento per la Sicurezza del Popolo) e successivamente l’Udba (Uprava državne bezbjednosti – Ufficio della sicurezza statale) – stavano poi a vigilare che questo pentolone jugoslavo non si scoperchiasse.
Per il Maresciallo, dunque, la soluzione più idonea, l’unica che desse qualche garanzia di mantenimento del suo “impero jugoslavo” era quella asburgica. Un’interpretazione interessante, singolare del nodo Tito. Se n’è parlato l’altra sera a Trieste, in Galleria Fenice, tra scaffali di libri e un pubblico relativamente numeroso, ma decisamente coinvolto, visti anche i diversi interventi e domande. Un evento indubbiamente di richiamo, l’appuntamento con il saggio monografico Il terrore del popolo: storia dell’OZNA, la polizia politica di Tito (Ed. Italo Svevo, Trieste, 2012, pp. 176), di William Klinger, quarantenne storico fiumano, che vive a Gradisca d’Isonzo e lavora come ricercatore, anche per il Centro di Ricerche storico di Rovigno. Un nome, il suo, che è già stato notato a livello (storiografico) internazionale e che promette ulteriori affermazioni.
Klinger, supportato dalla Lega Nazionale – associazione che sta portando avanti una lungimirante e proficua azione di sostegno alla ricerca e documentazione storica riguardante (più o meno direttamente) la Venezia Giulia, il suo passato, la cultura, le tradizioni, i costumi – è riuscito a mettere insieme un bel po’ di materiale e ricostruire con piglio scientifico, nel modo più completo ed esaustivo possibile, sulla base delle fonti disponibili (i relativi archivi di Belgrado sono ancora off limits), la vicenda dell’Ozna, contestualizzandone la nascita, spiegandone i retroscena, i meccanismi di funzionamento, e seguendone tappa dopo tappa l’evoluzione.
Argomento, si diceva, che ha fatto e continua a far presa. Anche perché Tito rimane a tutt’oggi un enigma (qualcuno, tra il pubblico, ha parlato di “adorazione del cannibale”). C’è chi lo osanna e guarda al suo periodo con nostalgia. C’è chi gli riconosce e lo apprezza per le straordinarie doti di statista. Altri ancora cercano di indicare che, dietro il mito, c’è purtroppo una lungua sequela di cadaveri, di vessazioni, di orrori. E c’è chi lo ha capito appena “dopo”.
Una scia di sangue – d’effetto, a proposito, la copertina del volume di Klinger, con Progetto uomo, di Alessandro Cannistrà (2002) – che emerge ora prepotentemente mano a mano che si “scava” nelle fosse comuni e tra i documenti. Ma nella Venezia Giulia la memoria è viva ed, eufemisticamente parlando, non è delle migliori. E i triestini, come il popolo istriano-fiumano-dalmata che ha pagato uno scotto pesantissimo, ne sanno qualcosa. Basti, in riferimento alla serata del libro di Klinger, il racconto di Fausto Biloslavo, giornalista di guerra triestino, intervenuto all’incontro testimoniando la sua personale tragedia: il padre materno, Ezechiele, pur non avendo mai fatto del male a nessuno fu prelevato dai titini che occuparono Trieste nei famigerati “40 giorni” del 1945, e sparì nel nulla dopo essere stato deportato verso Lubiana; il nonno paterno, Giacomo, scampò per miracolo ad una sommaria fucilazione dei partigiani, mentre da Momiano, dov’era nato e vissuto, cercava di raggiungere Trieste alla fine della seconda guerra mondiale.
E lui, il giornalista, si troverà citato in tribunale dall’unico ufficiale di Tito processato in Italia (e prosciolto per carenza di giurisdizione), per alcune uccisioni a Fiume, stato Oskar Piškulić – Žuti. Ma si troverà anche nei Balcani, in ebollizione nel 1992, per delle contrapposizioni storiche che non erano state risolte tra ustascia, cetnici, bosgnacchi (musulmani), bensì si era cercato di mettere una pietra sopra al passato e dimenticare. Ecco allora l’importanza della conoscenza, perché solo questa consentirà in effetti di fare giustizia e quindi di voltare pagina, di guardare avanti per il bene delle future generazioni. In tale ottica il saggio di Klinger apre uno spiraglio di luce su un passato che è stato volutamente oscurato, per motivi politici, ed è un contributo alla (ri)lettura della nostra storia così come si è articolata realmente, e non (solo) per quella che qualcuno vorrebbe farci leggere.
Ilaria Rocchi
“la Voce del Popolo” 17 novembre 2012
Il comando del 4° battaglione titino, Zagorje (foto www.tumblr.com)