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23 gen – Fra Placido da Cherso che salvava gli ebrei

di LORENZO FAZZINI su Avvenire del 20 gennaio 2011

Il suo confessionale alla Basilica del Santo a Pa­dova era una base di preziosi informazioni: spionaggio popolare, ac­corto smistamento di ma­teriale per far espatriare e­brei e ricercati. Quando si recava nel campo di con­centramento di Chiesa­nuova, appena fuori Pa­dova, il suo saio si «gon­fiava » all’inverosimile: quell’occhialuto e claudi­cante fraticello indossava quanti più abiti poteva, poi li lasciava ai prigionie­ri che andava a visitare per «salvare loro anime. E se così salverò anche la lo­ro vita, tanto di guadagna­to ». Merita nuova luce la figura di padre Placido Cortese, frate minore ori­ginario di Cherso, attuale Slovenia, dal 1918 Istria i­taliana. I motivi non man­cano: per diversi anni di­resse il Messaggero di Sant’Antonio (con lui arri­vato alla diffusione-record di 800 mila copie) ma so­prattutto salvò migliaia di ebrei. A Padova Cortese collaborava con il «Fra-Ma», acronimo per Ezio Franceschini (futuro ret­tore della Cattolica) e Concetto Marchesi (cele­bre latinista comunista), uniti nell’organizzare una rete a favore dei prigionie­ri alleati. Ma anche mon­signor Francesco Borgon­cini Duca, al tempo nun­zio apostolico in Italia e delegato pontificio per la Basilica di Padova (territo­rio della Santa Sede), ave­va ufficialmente appog­giato nel 1942 l’impegno di padre Cortese. A questo «Perlasca con il saio», uc­ciso alla Risiera di San Sabba con un colpo di pi­stola (il suo corpo fu bru­ciato: quasi un’identifica­zio ne totale con quei fra­telli ebrei per i quali tanto lottò), la giornalista Cristi­na Sartori dedica ora un’a­gile biografia, Padre Placi­do Cortese. La sua vita, do­no del silenzio (Edizioni Messaggero, pp. 134, euro 9), in cui diversi coraggiosi complici del frate «giusto» offrono testimonianze, preziose anche per la cau­sa di beatificazione in cor­so dal 2000. Cortese dove­va essere tutt’altro che l’a­stratto intellettuale che il suo profilo tradisce, visto che era capace di inventa­re un linguaggio in codice: «'Padre, c’è una scopa da mandare in Svizzera'. 'Di che colore è questa scopa? Chiara o scura?'. 'Chiara, padre, forse sono due'.

'Capisco. Attendi in di­sparte e recita il Padre no­stro. Raccomandati a lui'.

È così che avvisavo padre Cortese che c’erano dei prigionieri da aiutare. E quella frase significava che serviva un salvacon­dotto per far espatriare un fuggiasco, ebreo, inglese o americano, per sottrarlo alle Ss o ai nazi-fascisti».

Quelle stesse Ss che l’8 ot­tobre 1944 mandarono a chiamare il giovane pa­dre- giornalista (nato nel 1907); da quel giorno nes­suno dei suoi più lo vide.

Venne trasportato a Trie­ste ed eliminato il 15 no­vembre, ma resistendo al­le torture indicibili di cui i suoi compagni furono te­stimoni (dita piegate, oc­chi pesti, capelli bruciati) senza tradire nessuno.

L’allora provinciale dei frati, Andrea Eccher, ne e­ra convinto: «Se Cortese a­vesse parlato, mezza Pa­dova sarebbe caduta nella rete nazista».

Da Padova nuovi testimoni sul «Perlasca col saio» che faceva espatriar e i ricercati dai nazisti e fu ucciso nella Risiera di San Sabba nel 1944

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