di Giò Alajmo su Il Gazzettino del 17 settembre 2010
La storia della perdita dei territori e la tragedia seguita alla guerra rivivono nel racconto di una famiglia di Pola
Veneziano, docente di estetica, scrittore, Stefano Zecchi ha scelto una via originale per parlare di uno dei momenti più tragici della storia italiana, la perdita dell’Istria e dei territori sulla sponda opposta dell’Adriatico con la fine della guerra e l’esilio o l’assassinio degli italiani che si trovavano oltre quello che sarebbe diventato l’attuale confine a Trieste. Zecchi ne ha fatto un romanzo "Quando ci batteva forte il cuore" (Mondadori).
Perchè proprio un romanzo?
«Perchè mi piace raccontare, è una forma espressiva che può arrivare a una fruizione più complessa di un saggio. E su questa onda di visione delle cose ho fatto una storia sul rapporto padre-figlio che è uno degli aspetti per me più interssanti. Oggi quella del padre è la figura più emarginata dalla cultura. I Padri d’oggi non sanno più cosa fare. Hanno perso tutta l’autorevolezza che avevano i vecchi padri di tempo. E volevo costruire un racconto impostato su un figlio il cui padre era partito per la guerra quando lui era piccolo ed era stato tirato su, allevato dalla mamma, donna che ha nella storia un carisma particolare. E in questa vicenda ho innestato unalra storia che è stata rimossa dalla nostra cultura, quella dell’Italia Orientale ceduta alla Jugoslavia come prezzo della sconfitta».
Due storie insieme quindi?
«Si. In quella realtà tragica e drammatica si sviluppa la storia di un bimbo, di un papà e, insieme c’è il mio desiderio di far capire cosa significa la tragedia di quella popolazione e nel contempo l’importanza formativa della figura del padre, oggi che i nuovi papà che cercano di ritrovare la loro funzione»
Mentre la madre?
«È una madre di allora presa autenticamente dalle vicende della politica e quindi fervente irredentista, combattente per l’italianità di quelle terre, e puo essere riportata alla figura di una madre d’oggi che si dedica alla professione, alla politica e non crede di abbandonare il suo ruolo».
Questo rapporto padre-figlio non può leggersi anche come metafora del legame fra Venezia e gli istro-dalmati?
«Certo, c’è anche questo. Io ho avuto una nonna triestina e mi sentivo di raccontare certe cose. A 6-7 anni vedevo arrivare i piroscafi di profughi che sbarcavano questa povera gente, e accolti come ladri fascisti, che abbandonavano la loro terra. Fu una doppia umiliazione. La perdita di un’identità, la tragedia. Ho visto di persona situazioni di esilio e alle elementari i ragazzi che arrivavano in aula con al collo il cartello "profugo"».
Non trova analogia con gli sbarchi di questi tempi a Lampedusa e in Sicilia?
«È diverso. Qui erano italiani che accoglievano altri italiani in modo crudele. questi si sentivano minacciati. Venivano da terre italiane dov’erano vissuti e da dove venivano cacciati a rischio della vita, considerati dagli altri fascisti e ladri in un clima che era da guerra civile».
Il romanzo è per forza di cose un’invenzione. Non c’è il rischio di banalizzare o falsare la Storia?
«Spero di no. Dietro al romanzo c’è una forte documentazione. C’è una vicenda che ha avuto mille repliche nella realtà e ci sono personaggi citati che appatengono alla storia vera. Ho cercato di tenere insieme l’aspetto dela documentazione storica, in modo tratteggiato ma autentico, senza soffocare la vicenda umana».
Il libro di svolge a Pola, terra che è stata un vero crocevia di popoli: romani, veneziani, austriaci, italiani, slavi, croati, sloveni, e che ha sempre rappresentato un punto di scontro tra Oriente e Occidente…
«È vero. Il periodo che racconto io è quello tra il ’43 nazista e il ’47 titino. Ho preso la storia nelle sue macrostrutture. Intanto tutta la fascia costiera era italiana. Erano le zone interne che avevano più un carattere etnico sloveno, croato, bosniaco, ma tengo a dire che non ho fatto un saggio storico. Ne sono stati scritti tantissimi e belli. Io li ho usati. Ma quella storia credo resti sullo sfondo perchè non c’è mai stata alcuna epicità nel raccontarla e questo non può venire che da un romanzo. Per rendere emotiva, epica la nostra Resistenza vale più "La ragazza di Bube" di Cassola che non mille libri, o un film come "Roma città aperta", opere che vanno al cuore della gente. Ma ho voluto che il romanzo si leggesse come la storia di un rapporto centrale nella formazione di un figlio. Nella nostra modernità abbiamo voluto dimenticare che c’è stata un’intera letteratura scientifica che demonizzato la figura del padre come regressiva.
Il padre è stato l’autorità fino agli anni Sessanta che sono stati anni antiautoritari per eccellenza. E si è preso tutte le colpe un po’ come l’arbitro di una partita di calcio…
«Esattamente così. E quindi da una parte c’è la presenza assenza di una figura paterna e dall’altra la presenza del Male che ti aggredisce nella tua vita quotidiana e ti impedisce di continuare la tua vita».
C’è un episodio chiave nel romanzo?
«Quando il bimbo dopo aver attraversato il periodo delle foibe, delle fucilazioni, dopo la tragedia, riconosce l’importanza di suo padre per la sua vita. E riconosce la centralità della figura del padre nella difesa della famiglia. E nonostante la tragedia, l’esilio, le umiliazioni patite da esuli alla fine ce l’hanno fatta e il padre trova un posticino come violinista nell’orchestrina del bar Florian in piazza San Marco e si convince che alla fine anche quello che sta suonando è arte».