Emozione pura, di quelle che corrono sul filo dei nervi e suonano le corde del cuore come uno strumento: questo si respirava – e lo scrivo senza ombra di retorica – il 9 febbraio scorso a Roma durante la consegna dei Premi «10 Febbraio – Giorno del Ricordo», istituito dall’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia per ricordare le vicende storiche di noi Italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia. L’atmosfera era di festa, nulla di triste o esageratamente commemorativo, nessun dramma né recriminazione, eppure era difficile trattenere le lacrime anche per me che, per motivi anagrafici, ero meno coinvolta di molti altri. Testimonianze, musiche, video e ricordi si sono alternati con equilibrio e maestria, creando alla fine l’armonia di un evento memorabile.
«Da quella volta non l’ho rivista più…». È stato uno dei momenti più toccanti quello in cui sul grande schermo in bianco e nero è apparso il volto di Sergio Endrigo, triste per natura già nei lineamenti, e ha cantato 1947, una canzone dal titolo breve quanto emblematico. 1947, una data che almeno metà della platea non poteva dimenticare e anche io, da figlia di polesana, in quei versi riconoscevo parole antiche sentite da bambina: «Da quella volta non l’ho rivista più, cosa sarà della mia città…». E ancora il tema della partenza verso l’ignoto, e delle radici tranciate: «Come vorrei essere un albero, che sa dove nasce e dove morirà». Ascoltavo le parole della canzone e pensavo che se io sono al mondo è anche per quel peregrinare che ha portato mia madre e mio padre ad incontrarsi. Ma pensavo anche a cosa può aver significato per i miei cugini partire per l’Australia e vedere la loro mamma rimasta a terra sempre più piccola e lontana, in tempi in cui il ritorno e il rivedersi erano un miraggio impossibile… Siamo partiti in 350mila e tutti, uno per uno, siamo diventati “altro”, come cantava Endrigo: «Essere un altro, e invece sono io», l’eterna condanna dell’esule, che resta se stesso ma non lo è più. Che ovunque vada avrà sempre nostalgia di un altrove.
Lacrime e risate anche quando, scesa dal palco Claudia, la figlia di Endrigo, è salita Loretta Goggi, geniale e versatile nel ricevere il premio per suo marito da poco scomparso, il ballerino, coreografo e regista Gianni Brezza, partito a soli 5 anni dalla sua Pola per sbarcare da profugo a La Spezia. E avanti con Susanna Tamaro, scrittrice e autrice di Vai dove ti porta il cuore, il vignettista Giorgio Forattini, il regista Franco Giraldi, il giornalista Rai Marco Bezmalinovich e il cineoperatore Rai Mario Uderzo, tutti «personaggi di origini giuliano-dalmate particolarmente distintisi nelle proprie professionalità». Tra questi, l’emozione di esserci anch’io. «Per essersi più volte occupata, sulle pagine di “Avvenire” e de “L’Arena di Pola”, delle vicende degli istriani, fiumani e dalmati, restituendo con la sua brillante penna visibilità e autenticità ai fatti accaduti… », era la motivazione. Fatti che, come ho raccontato, non sono andata a cercare, perché sono venuti loro da me, entrati a far parte della mia vita già con il latte materno.
«Uno dei primi ricordi della mia infanzia – ho detto nel ricevere l’onorificenza – è mia mamma, Carmen Ursini, aggrappata in lacrime alla cancellata del liceo Carducci di Pola…», un nome che in sala ha subito provocato un mormorio, voci di entusiasmo e sospiri di nostalgia insieme. «Ero piccolissima e non capivo perché mia mamma piangesse disperatamente guardando quel palazzo. Poi siamo andati a vedere la casa in cui era cresciuta…», ho continuato.
Poco prima la scrittrice di Pola Anna Maria Mori, una dei fondatori del quotidiano «la Repubblica», parlando del suo ultimo libro L’anima altrove aveva ricordato come anche i muri parlano e ci raccontano, muti, le storie di vita accadute al loro interno. «Ecco, anche i muri della casa di mia mamma mi hanno parlato, con il gradino di pietra all’ingresso, ancora rotto nel 1975 come quando ci giocava lei; con le finestre della sua stanza; con i vetri blu dell’oscuramento, ancora lì a trent’anni dai bombardamenti…».
È così che ho conosciuto Pola, la città fantasma (fino a quel giorno) da cui mia mamma era dovuta fuggire decenni prima e nella quale non aveva mai avuto cuore di tornare fino ad allora. Un pensiero che mi ha sempre impressionato è quello della porta che si chiude, definitivamente, prima dell’esilio. Pensateci bene: che si fa della chiave? Non è una banalità, è il simbolo più forte dello strazio: per chi si chiude? Chi verrà dopo – lo si sa bene – non avrà bisogno di chiavi per entrare e prendere possesso di quelle stanze, dei letti, dei nostri piatti, degli oggetti amati e cari accumulati negli anni, dei ricordi di famiglia, di tutto ciò che ha costituito la nostra vita quotidiana. Qualcuno quella sera stessa si guarderà nel nostro specchio, che rifletterà un volto estraneo. Mani straniere profaneranno tutto ciò che era nostro. «Quale sarebbe un suo desiderio da realizzare per sentirsi Pola più vicina? », mi ha chiesto una giornalista intervistandomi, e io ho risposto che vorrei tanto poter ricomprare quella casa di mia mamma, riprendere il corso della storia dal punto in cui qualcuno l’ha interrotta, recidendola come un fiore nel suo massimo vigore.
Ho poi raccontato come man mano l’Istria e la sua storia è diventata mio argomento di lavoro, quando – diventata giornalista – scrivevo di un tema poco noto e per nulla digerito come quello delle foibe… “Fobìe”, correggevano i rilettori di bozze, convinti che si trattasse di un errore di stampa. Già, “Il dramma delle fobìe”, anziché delle foibe. Un macabro gioco di parole che però in fondo metteva il dito nella piaga: ancora negli anni ’90 il nostro genocidio era una vera fobìa per i direttori di testate giornalistiche e televisive, che censuravano le mie (e altrui) pagine.
Quando scoprii che Oscar Piškulić, il famigerato e sanguinario capo dell’OZNA di Fiume, era ancora vivo e veniva a passare le vacanze in Italia, lo intervistai telefonicamente dalla sua casa di Fiume e lui, ben lungi dal difendersi dalle mie accuse, sottoscriveva quanto aveva commesso, dicendo che «la guerra finisce, l’odio continua». Un vero scoop, che però i giornali (persino «il Giornale» di Montanelli) tennero nel cassetto anni (infine uscì sull’«Indipendente» nel 1995)…
Oggi i tempi sono cambiati, persino noi abbiamo il nostro “Giorno”, nel quale le tivù si affannano a riproporre sempre lo stesso film (Il cuore nel pozzo: bello, ma è evidente che non ce ne sono altri!) o i documentari girati per l’occasione e… mandati in onda rigorosamente in seconda o terza serata, come ho denunciato dal palco davanti ai dirigenti Rai presenti, guadagnandomi l’applauso più convinto e scrosciante. E di foibe parlano un po’ tutti (senza più farne anagrammi!), ma solo entro le 24 ore del 10 febbraio, poi per altri 364 giorni ci si sente a posto con la coscienza. Non solo: anche i giornalisti dalla nostra parte – non si capisce perché – devono ogni volta invitare nei loro salotti anche un negazionista, come se dovessero pagare un obolo alla menzogna per poter raccontare la verità: ci è cascato anche Bruno Vespa (che non incorre in questo errore in altre “Giornate” di altre Memorie).
Ma tutto questo non ha intaccato invece la celebrazione del Salone Margherita, equilibrata, armoniosa, intelligente, né retorica né distaccata, perfettamente organizzata e arricchita da voci inedite anche per noi esuli o figli di esuli. Nicolò Bongiorno, figlio di Mike, ha mostrato spezzoni del suo documentario Rai Esodo, Stefano Zecchi ha parlato del suo romanzo Quando ci batteva forte il cuore (già premio «Istria Terra Amata» 2011), gli attori Sebastiano Somma e Chiara Caselli hanno ricordato la fiction Rai Senza confini su Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume italiana.
Insomma, personaggi famosi sono stati intelligentemente coinvolti e, proprio perché “non di parte”, apportano una credibilità ulteriore a quanto noi da sempre andiamo dicendo inascoltati. Ho sottolineato comunque come già noi del Libero Comune di Pola in esilio avevamo aperto questa strada proprio durante il nostro Raduno a Pola nell’estate del 2011 con Stefano Zecchi, un evento a dir poco storico e un esempio che ho consigliato di seguire anche a Fiume, Zara e ad altre nostre comunità, ricordando come lo stesso Lucio Toth avesse scritto parole di ammirazione e lode prima e dopo la nostra iniziativa.
Quella stessa mattina al Quirinale eravamo stati tutti ricevuti dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che ha ricordato le «orrende stragi delle foibe» e la «tragedia dell’esodo di intere popolazioni», volgendo poi lo sguardo all’Europa come obiettivo di pace e di armonia tra i popoli. Del suo discorso la nostra «Arena» si è occupata già nel numero di febbraio, dunque non mi soffermo, se non per dire che è stato un privilegio poter entrare da “premiati” in quelle stanze e portarvi la nostra testimonianza.
Un sincero ringraziamento vorrei darlo attraverso il nostro giornale a tutti coloro che erano presenti, perché ho sentito il mio intervento avvolto in un caldo abbraccio di affetto e accoglienza. E al nostro sindaco Argeo Benco: qualcuno ha notato che, nel buio della sala, si coglieva solo il lampo bianco del suo sorriso sul volto abbronzato, mentre raccontavo del nostro storico raduno polesano e del legame che con i “rimasti” abbiamo saputo e voluto riallacciare.
Lucia Bellaspiga su “L’Arena di Pola”