Già nell’estate 1914 irredentisti nazionalisti e democratici giuliani, fiumani e dalmati erano partiti volontariamente per l’Italia al fine di scampare alla chiamata alle armi asburgica e cominciare invece a fomentare l’interventismo nella penisola. In particolare la nutrita pattuglia di mazziniani (tra i più celebri Nazario Sauro, Giuseppe Vidali, Carlo e Giani Stuparich, Pio Riego Gambini, Gabriele Foschiatti, Ercole Miani, Diomede Benco, Giovanni Grion, Antonio Bergamas e Giuseppe Pagano-Pogatschnig) invocava la discesa in campo dell’Italia non solo per completare il percorso risorgimentale con l’annessione delle terre irredente da cui provenivano, ma pure al fine di lanciare una sorta di crociata contro l’Austria finalizzata a ottenere la liberazione dei popoli oppressi, coerentemente con il mito mazziniano della missione salvatrice della Terza Roma. Quest’ispirazione avrebbe pure dettato i toni del proclama successivamente indirizzato al momento dell’entrata in guerra dell’Italia da Pio Riego Gambini ai giovani istriani e sottoscritto da Luigi Ruzzier, Piero Almerigogna e Luigi Bilucaglia. Fu merito del barone Mario de Bratti, capitano di cavalleria e volontario irredento prestato all’aviazione, se quest’appello ai giovani istriani, fu lanciato sulle città istriane già il 10 maggio 1915, esortando alla lotta clandestina oppure alla fuga in Italia per partecipare alla guerra ormai considerata imminente.
Venezia era ben presto diventata il ritrovo per i disertori che non avevano voluto indossare il Feldgrau, cioè la divisa dell’imperialregio esercito asburgico. Tra questi esfiltrati a Venezia vi era anche il capodistriano Nazario Sauro, il quale più volte, ma invano, propose ai comandi della Marina italiana, cui forniva assiduamente informazioni e notizie sull’Adriatico orientale, di organizzare uno sbarco “alla Pisacane” a Trieste oppure a Capodistria, al fine di scatenare una sommossa coinvolgendo elementi locali ovvero di creare il casus belli fra Roma e Vienna. Sauro, che era stato esonerato dal servizio militare causa una ferita ad un occhio, continuò sotto mentite spoglie a fare la spola con Trieste e la costa istriana: la copertura era quella dei traffici marittimi, la sua intenzione era di studiare gli apprestamenti difensivi austriaci e cogliere i movimenti della marina da guerra.
All’insaputa di costoro, del Parlamento e dei comandi militari, tuttavia la diplomazia sabauda stava portando a termine il mercanteggiamento inerente l’entrata in guerra dell’Italia. I meccanismi della Triplice Alleanza (Roma, Berlino, Vienna) non era scattati, in quanto si trattava di un’alleanza difensiva e l’Austria-Ungheria aveva invece dichiarato guerra alla Serbia, scatenando poi la reazione a catena che devastò l’Europa. Roma chiedeva compensazioni territoriali per la propria neutralità o per un’eventuale discesa in campo a fianco degli Imperi centrali, ma, nonostante la mediazione germanica, Vienna non andò mai oltre alla promessa di concedere, ma solamente a guerra finita, alcune rettifiche di confine nel Friuli orientale, il Trentino ed un regime di autonomia accentuata per Trieste. Ben più allettanti furono le promesse della Triplice Intesa (Inghilterra, Francia e Russia) che prospettavano il Trentino fino al Brennero, il confine orientale alle Alpi Giulie e la Dalmazia settentrionale, mentre Fiume sarebbe rimasta lo sbocco al mare di un ridimensionato impero asburgico.
Il 26 aprile 1915 fu quindi stipulato il Patto di Londra e pochi giorni dopo l’Italia denunciò la Triplice Alleanza: erano giunte le “Radiose giornate di maggio”. Battisti percorreva da tempo l’Italia in lungo e in largo per svolgere i suoi comizi interventisti entrando in dissapore con i socialisti italiani neutralisti, il discorso di Gabriele d’Annunzio allo scoglio di Quarto apparve più un’esortazione all’entrata nel conflitto in corso che una rievocazione dalla partenza dei Mille per la Sicilia, sindacalisti rivoluzionari come Filippo Corridoni e Benito Mussolini divennero tribuni di infuocati comizi in cui le rivendicazioni nazionali si intrecciavano con propositi di rivoluzione sociale ed istituzionale. Quando l’entrata in guerra dell’Italia fu evidente, gli opposti nazionalismi che si fronteggiavano da decenni nell’Adriatico orientale esplosero nell’assalto da parte della componente lealista della popolazione nei confronti dei simboli dell’italianità adriatica. Gruppi di manifestanti slavi, i quali dalle ultime ricerche archivistiche sembra che abbiano agito anche contro le forze dell’ordine che sorvegliavano le manifestazioni, devastarono la redazione del quotidiano triestino Il Piccolo, la sede della Società Ginnastica Triestina e della Lega Nazionale, vale a dire i pilastri dell’informazione, della cultura e dell’associazionismo italiani.
Dichiarando l’apertura delle ostilità Vittorio Emanuele III fece esplicito riferimento alla necessità di “completare l’opera dei nostri padri”, cioè la riunificazione nazionale: non solo per gli italiani irredenti quella che l’opinione pubblica chiamava Grande guerra era in effetti una Quarta guerra d’indipendenza.
Lorenzo Salimbeni