C'è un premio che da quasi trent'anni (siamo alla 29ª edizione), quindi da ben prima dell'insorgenza di localismi di ogni ordine e grado, s'incarica di valorizzare territorio, eccellenze, patrimoni imprenditoriali e d'ingegno del Veneto soprattutto con riguardo al loro "appeal" internazionale e universale, alla capacità manageriale e all'impegno sul fronte culturale e sociale: è il Premio Masi Civiltà Veneta, che la Fondazione Masi di Verona assegnerà domani al Teatro Filarmonico della città scaligera.
La giuria dell'edizione 2010, presieduta da Isabella Bossi Fedrigotti, ha deciso che quest'anno a dividersi la grande, tradizionale botte di Amarone saranno l'imprenditrice farmaceutica Diana Bracco, discendente da una famiglia di esuli dalmati, il disegnatore e autore satirico Francesco Tullio Altan e il violoncellista di fama mondiale Mario Brunello; mentre il premio Masi "Grosso d'Oro Veneziano", tradizionalmente riservato a personaggi che abbiano contribuito a diffondere nel mondo un messaggio di solidarietà, progresso civile e pace, andrà allo scrittore ungherese Peter Esterhazy, e il premio Masi "Civiltà del Vino", riservato al Gotha dell'enologia, al Metropolita Sergi dell'eparchia (diocesi) di Nekresi nella regione del Kakheti, epicentro dela viticoltura georgiana.
La storia di Diana Bracco De Silva è una storia particolare, ed è – appunto – anche una storia di esule, di radici espropriate e poi ritrovate. Presidente e amministratore delegato di un gruppo da 3000 dipendenti e un miliardo di fatturato, specializzato nell'"imaging" diagnostico di cui è leader mondiale, Diana Bracco è anche – tra gli altri suoi ruoli – vicepresidente di Confindustria con delega per la Ricerca e Innovazione e per l'Expo 2015 nonché della Fondazione Bracco, particolarmente orientata verso la valorizzazione del patrimonio culturale (il gruppo Bracco è, ad esempio, da sempre sponsor della Filarmonica della Scala). L’abbiamo incontrata al suo ritorno da Shanghai, dove ha partecipato all'Expo 2010, e la riportiamo con la memoria là da dove tutto è iniziato.
La sua è una famiglia di esuli. Quanto ha contribuito, pesato questo nella sua formazione e nel suo percorso successivo?
«È un legame inestinguibile. Mio nonno Elio era del 1884, nato in Dalmazia ma da sempre con fortissimi sentimenti italiani. Tanto che ad un certo punto, le parlo di prima della 1° Guerra Mondiale, venne imprigionato e tutta la famiglia finì in campo di concentramento. Tre anni in prigione per un'idea così forte: ora che avanzo negli anni mi stupiscono sempre di più questo attaccamento, questa determinazione. Mia nonna era la sorella del senatore Salata, che era a capo delle terre irredente e dopo la guerra partecipò alla definizione dei confini. Il nonno poi lasciò la sua terra, si fermò un po' a Trieste poi si trasferì a Milano, e i fratelli si sparsero un po' ovunque. Noi siamo nati e cresciuti a Milano, ma abbiamo sempre sentito una grande attenzione per le nostre terre d'origine. Pensi che mio nonno non potè mai tornare perché era nelle liste nere. Solo ora immagino il suo dolore, lui che amava così tanto il mare e che si era comprato una grande barca a vela…».
E suo padre Fulvio?
«Papà potè tornare in seguito. Lui è stato presidente del Circolo degli esuli dalmati fino agli anni '80, nonno si era occupato anche degli esuli a Roma, aveva fatto costruire delle case per loro… Sa, oggi i giovani vedono la globalizzazione e queste cose le capiscono poco».
La sua azienda è specializzata nell'"imaging" diagnostico. Ci spiega di cosa si tratta esattamente?
«È una nostra specializzazione che ormai dura da quarant'anni. In pratica assicuriamo procedure diagnostiche per raggi x, Tac, risonanze magnetiche ed ecografie a ospedali, o reparti, sia pubblici sia privati. Abbiamo cominciato producendo prodotti a base di iodio, radio-opachi, in altri termini mezzi di contrasto. Oggi deteniamo la prima posizione al mondo in questo settore, produciamo il 32% dell'intero di mercato di mezzi di contrasto, e anche buona parte delle tecniche e delle strumentazioni per somministrarli. Ovviamente siamo avanti anche sul fronte informatico, perché questo è un settore dove i dati passano per migliaia di elaborazioni informatiche».
La vostra è un'azienda mondiale però a gestione familiare. Una scelta precisa?
«Secondo me è un valore aggiunto. Se ogni generazione riesce a identificare un proprio rappresentante valido è un fatto positivo: significa portare avanti tradizione, valori, e anche fare il business per l'azienda nel suo insieme, cioè guardando oltre se stessi. Nello stesso tempo siamo globali, presenti nel mondo: dagli Usa al Giappone, dal Canada alla Cina, da dove provengo, e dove siamo orgogliosi di essere arrivati al momento giusto, una decina d'anni fa. Abbiamo portato a Shanghai anche la Filarmonica della Scala, di cui siamo sponsor storici».
Accanto all'attività imprenditoriale il gruppo è infatti da sempre molto attento anche alla dimensione sociale, ambientale, e a quella culturale. Ad esempio avete fatto molto per gli aiuti alle popolazioni colpite dal terremoto ad Haiti. Oneri, ma suppongo anche soddisfazioni…
«Vede, ai tempi di mio padre e mio nonno questa attenzione, questa sensibilità per il sociale c'era egualmente, solo che forse era meno organizzata, meno strutturata: ma non meno attenta. Io penso spesso alle 3000 e più famiglie, moltiplicate per tutti questi anni, che grazie all'azienda hanno potuto vivere bene. Oggi abbiamo il 50% dei nostri dipendenti, anche all'interno dell'area di ricerca, composto da donne. Cerchiamo di aiutarle a conciliare lavoro e famiglia. Facciamo assistenza sociale per gli anziani, individuiamo vacanze per i giovani, lavoriamo sulla prevenzione fornendo un programma di esami e controlli periodici specializzati al nostro personale. Sul fronte della cultura ricordo che il nostro "debutto" fu un impegno di 10 milioni di vecchie lire per il rifacimento di un pezzo di facciata della Scala. Abbiamo affrontato anche l'arte visiva con Tiziano e Giorgione a Washington, dove abbiamo avuto l'idea di applicare ai quadri le tecniche della radiodiagnostica, così da evidenziare i materiali, magari la "prova d'artista" che sta sotto un dipinto… Cerchiamo insomma di fare sempre cose di qualità, in questo crediamo molto».
La crisi però c'è e non è ancora sconfitta, anzi. Lei ha una ricetta, un'indicazione per il futuro?
«Le imprese ormai si sono adeguate e continuano ad adeguarsi in modo sempre più flessibile all'andamento del mercato. Questo però non è bello perché "flessibilità" significa anche perdere posti di lavoro. Se c'è una cosa che mi preoccupa molto sono i tassi di disoccupazione. Bisogna assolutamente andare in controtendenza, certo, ma come? In primo luogo occorre che i giovani siano bravi, si impegnino, studino, competano con gli altri Paesi. Servono merito, impegno, e il coraggio magari di uscire dal Paese per poi rientrarvi. E poi innovazione, innovazione, innovazione! Le imprese devono continuare, crescere su questa strada, se non l'hanno ancora fatto lo facciano. Dobbiamo arrivare negli altri Paesi con prodotti che abbiano il più elevato tasso d'innovazione possibile, con servizi, con qualità. Nel Veneto questa è già una realtà, ma l'Italia non è tutta omogenea. E se non c'è qualità tutto decade, anche l'offerta turistica».
di Giuseppe Pugliese su Il Piccolo del 24 settembre 2010