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25 gen – Italo Gabrielli: io, esule che non ha mai trovato pace

Italo Gabrielli compie 90 anni. Nell’autunno 1954 fu tra i fondatori dell’Unione degli Istriani, che presiedette dal 1976 al 1981, operando contro il Trattato di Osimo, che cedeva alla Jugoslavia la “Zona B”. Nato a Pirano da famiglie di irredentisti, dove visse fino al 1928 quando si trasferì a San Canziano di Capodistria. Dopo il 1° maggio 1945, da esule, si traferì a Trieste. Laureatosi in fisica alla Normale di Pisa, nel 1946 fu nominato assistente a Ingegneria dell’ateneo di Trieste, dove insegnò come professore associato fino al 1991. Solo nel 1958 poté sistemarsi in un appartamento a Trieste, prima delle nozze con Alma Cosulich nel 1964 e la nascita dei figli Marco, Paola, Francesco e Piero.

di SILVIA ZANARDI su Il Piccolo del 25 gennaio 2011

L’orologio a parete ha la forma dell’Istria, ma se avesse quella di un cuore sarebbe uguale. Le lancette girano: toccano Fiume, Pola, Pirano. Una, due, tre volte. Più Italo Gabrielli va avanti a raccontare i suoi novant’anni di rocambolesca vita, che festeggerà domani, più viene da chiedersi come sarebbe stata la sua storia senza l’esilio e il chiodo fisso di una terra da dover riconquistare con le unghie e con i denti: l’Istria. «E avessimo pace adesso – esplode -. Non dobbiamo anche assistere alla svendita dei nostri beni a 3 centesimi di dollaro al metro quadrato. Dopo tutti questi anni, non è ancora finita».

È uno dei più anziani esuli istriani di Trieste, portavoce del Gruppo Memorandum 88, fondatore dell’Unione Istriani, Fiumani e Dalmati, infaticabile rivendicatore dei diritti della sua terra natale. Domani spegnerà novanta candeline attorniato dalla sua grande famiglia, «cattolicissima» (ci tiene a dirlo): una moglie, quattro figli e ben undici nipotini.

Seduto al tavolo del salotto in viale III Armata 17, a un certo punto si lascia andare a una battuta: «Chissà, se non avessi vissuto tutta la storia in cui mi sono trovato in mezzo, forse mi sarei annoiato a insegnare matematica al liceo scientifico di Capodistria». Invece no: da docente universitario di fisica, con laurea presa alla Normale di Pisa, ha girato mezzo mondo, spesso e volentieri portandosi dietro moglie e figli: «Quattro figli nati in cinque anni, cinque mesi e cinque giorni – precisa Alda, la sua dolce e metà triestina – Abbiamo messo su famiglia di corsa, ultra quarantenne lui, e io già passati i trenta da un po’». È lei a continuare il discorso: «I ricordi dell’esodo se li è portati dietro dappertutto. Quando eravamo a Berkley, in California, di notte si svegliava con gli incubi».

Cosa ne potevano sapere gli americani degli anni Sessanta, degli esuli istriani cacciati dalle truppe titine, delle foibe e di tutta la carne al fuoco che in quell’angolo d’Europa tanto conteso e complicato, che era la Jugoslavia, si stava consumando. «Negli Stati Uniti ho insegnato un anno, dal 1964 al 1965 – spiega Italo -. E ai miei colleghi di università raccontavo di Pirano, la mia città natale, di San Canziano di Capodistria, dove mi ero diplomato al liceo classico Colombi, e poi di Volparia di Salvore: ci abitava mia nonna e tutte le estati andavo a trovarla con i miei nove cugini. Mi ascoltavano, ma molti di loro a volte cadevano dalle nuvole».

L’America era il paradiso, in quegli anni. L’ottimismo, le novità di un continente così giovane, l’impegno nel dover imparare una nuova lingua riuscivano, a volte, anche ad allentare l’angoscia delle vicende iniziate il primo maggio del 1945, quando all’occupazione tedesca subentrò quella jugoslava e Gabrielli faceva supplenze di matematica e fisica al seminario di Capodistria. «Notizie allarmanti arrivavano da ogni parte dell’Istria e nei 40 duri giorni dell’occupazione jugoslava non ho mai visto Trieste. Poi la Venezia Giulia venne divisa nelle due zone di occupazione dalla Linea Morgan e ci illudevamo che le nostre cittadine a maggioranza italiana venissero liberate – spiega -. Vedevamo gli alleati passare con i veicoli per occupare Pola, ma anche gli jugoslavi sentadi su le strasse, pronti a partire con armi e bagagli».

Infatti, meno che a Pola, i titini restarono in Istria e Capodistria e Trieste vennero divise: «Per scampare all’arruolamento nell’esercito di Tito – continua – andai a Trieste da miei parenti. A volte ci siamo trovati a dormire anche in più di 14 in un appartamento».

Con quest’aria da fisico, puntuale nel ricordare tutte le date di ogni suo singolo ricordo, con i capelli bianchi un po’ da dandy, il maglione scuro e il nodo di una cravatta blu che spesso si aggiusta, Italo Gabrielli cerca di far capire cosa significhi essere un esule: «Ti senti catapultare da un’illusione a una delusione, hai fra le mani un’identità da difendere che ti scivola continuamente dalle dita, provi rabbia, per la privazione di qualcosa che una volta era tuo e della tua famiglia e nemmeno ora riesci a recuperare del tutto». «Ricordo che una volta, nel 1950, sono stato invitato dai parenti a fare il bagno a Punta Grossa, giusto al limite della Zona A – continua -. La loro campagna era stata tagliata a metà dalla Linea Morgan e per poterci andare dovevo passare il posto di blocco jugoslavo: ma quella era casa mia! Assurdo a pensarci ancora oggi».

Si alza, va nel suo studio, mette le mani negli scaffali, tira fuori libri su libri. Da una busta escono mazzi di vecchie fotografie: c’è anche quella scattata nel 1983 quando incontrò Papa Giovanni Paolo II in rappresentanza dei profughi. Ogni tanto sua moglie lo aiuta a fare ordine: «Passa tutte le sue notti a scrivere, va a letto tardi e la mattina dorme quanto gli pare – dice Alda rovistando fra le mensole -. Ma io non lo disturbo, cerco di adeguarmi». A giorni uscirà un suo nuovo libro, il quinto sull’esodo e i diritti degli istriani. Aspetta solo la pubblicazione. «C’è ancora tanto da dire sulla nostra storia, su quello che è stato allora e su come è la situazione adesso – conclude Gabrielli -. Per secoli, istriani, fiumani e dalmati si sono difesi da soli, controllando la calata degli slavi verso il mare. La nostra fine è iniziata quando, dopo il 1918 e il 1945, l’Italia si è avocata la nostra difesa. Peccato: i nostri padri, e anche noi, sognavamo un’altra Patria oltre l’Adriatico».

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