Stefano Zecchi, noto volto televisivo, scrittore, comunicatore, uomo colto ha una nonna triestina, che lui chiama affettuosamente la “nonna asburgica”. Se ha deciso di dedicare un romanzo alla vicenda dell’Adriatico orientale, anche questo legame può aver influito sulla sua scelta. “Può essere”, risponde l’autore di “Quando ci batteva forte il cuore”, edito da Mondadori e che verrà presentato a Trieste giovedì 28 ottobre alle ore 18 all’Auditorium del Museo Revoltella, grazie all’impegno del Comune di Trieste, dell’ANVGD-Comitato provinciale di Trieste e del CDM-www.arcipelagoadriatico.it. A ragionare con l’autore ci sarà il vicedirettore de “Il Piccolo”, Alberto Bollis.
“Si, certo – risponde ancora Stefano Zecchi – ma sono soprattutto le mie radici veneziane che, nonostante la giovanissima età, mi hanno reso testimone di momenti di storia: l’arrivo delle navi degli esuli a Venezia e l’atmosfera pesante creatasi in città. E poi la scuola, quella che descrivo nel libro, è la mia, nella quale entrarono questi ragazzi presentati come profughi. Uno lo avevamo adottato, veniva con sua madre a casa nostra. E poi i luoghi comuni, il passaparola che vedeva queste genti come ladri che venivano a portar via il lavoro fuggendo dal paradiso comunista. E poi, c’è un’altra vicenda, personale…”.
Quale?
“Da professore a Milano ho incontrato Roberto Predolin, di famiglia dalmata, che mi ha fatto conoscere da vicino questa realtà raccontandomi tante storie con nomi e cognomi, personaggi e fatti, per cui sentivo da tempo l’esigenza di comunicarle al pubblico, di farle conoscere”.
Perché ha scelto di calarsi nel ruolo del profugo invece di raccontare la storia dal punto di vista di chi l’ha vissuta dall’altra parte?
“Sarebbe stato un altro libro. Comunque nel ragionare sul racconto e nella documentazione che ha preceduto la scrittura, mi sono accorto che su esodo e foibe esistono tanti libri di storia che tracciano il percorso e lo analizzano dal punto di vista scientifico. Ora, per fare un esempio, la resistenza in Italia più che dalla storiografia è stata veicolata, arrivando direttamente al vasto pubblico, attraverso i romanzi di Cassola o Fenoglio o altri ancora. Ciò che volevo raccontare era soprattutto quest’ambiente di Pola, una famiglia serena com’era stata quella di Predolin, dove nei pomeriggi il silenzio era rotto dalle note del violino. Un’immagine che esce dagli stereotipi, dalle considerazioni sui profughi da parte di noi italiani e tutto questo, affidato ad un romanzo, può arrivare al vasto pubblico”.
Con che risultato?
“Questo dovreste dirmelo voi. Oltre alle mie frequentazioni, ho inserito quanto appreso ed avvertito alle cerimonie in occasione del 10 Febbraio. E proprio a questo proposito, devo dire che con il romanzo ho cercato di rompere quella cortina di omertà che ancora persiste. Con un fine, vorrei che il libro entrasse nelle scuole nelle quali io lavoro da una vita e so quanto bisogno ci sia di verità”.
Perché Pola, città difficile con un esodo i cui risvolti sono ancora da esplorare?
“In effetti è stata proprio la sua complessità a muovere la mia curiosità diventando sfida. Immaginavo questo luogo, un’enclave all’interno dell’Istria, isolata da tutti ma in attesa spasmodica di una soluzione che ne conservasse l’italianità. Diventa per tanto simbolo di una problematica che travolgerà poi tutto il territorio”.
Quali le reazioni del pubblico?
“Direi ottime, sia perché il tema dell’esodo è trattato con attenzione ma anche perché c’è questa storia tra padre e figlio che appartiene a quell’epoca ma è incredibilmente attuale. Quando si è costretti ad abbandonare la propria casa – il che significa affetti, ricordi, sensazioni, profumi, esempi di vita, e così via – non si perde solo un patrimonio ma molto di più. Ecco dunque la storia di questo ragazzo che non riesce a crescere con la presenza del padre e ne soffre moltissimo. Credo che l’educazione debba venire da una figura paterna importante, per cui il messaggio diventa universale ed investe il ruolo della famiglia, ieri e sempre”.
Lei è un personaggio legato al mondo televisivo, per cui ne parlerà dallo schermo?
“Non sarà facile, è presente in certi ambienti un ostracismo che frena la libera discussione su queste tematiche. Il motivo è semplice e va letto su due livelli. Una è la questione delle Foibe, che è comunque un dato storico-geografico preciso, relegato ad un momento pesante del Novecento, e la cui consapevolezza apre una pagina di conoscenza per tutti. Ma esodo, lo status di profugo, il rapporto con il Paese, i diritti disattesi sono un’altra cosa, sono una vicenda drammatica di quell’Italia repubblicana che certe pagine non ha mai voluto fossero scoperte”.
Che cosa si può fare?
“Continuare a lavorare così, cercando di squarciare il velo di silenzio e far sapere”.
Rosanna Turcinovich Giuricin su La Voce del Popolo del 26 ottobre 2010