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26apr/15.54 – Oliva: il Trattato di Osimo servì per vendere più Fiat

Foibe, tre buoni motivi per tacere sull’esodo

Oliva: «Il Trattato di Osimo? Servì per vendere più Fiat»

di Massimo Nardi, tratto da Speciale TG Modena Qui interviste (19 aprile 2011) – courtesy MLH

Il Giorno del Ricordo in Italia si celebra il 10 febbraio, ed è in me­moria delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. Isti­tuito con la legge 92 del 30 marzo 2004, concede anche un riconosci­mento ai congiunti degli infoibati: è grazie a questa legge che oggi in Italia si può parlare dell’esodo istriano, o giuliano-dalmata, avve­nuto a partire dal 1945, dopo la fi­ne della guerra.

Quando, cioè, la maggior parte della popolazione italiana di quel­le regioni preferi abbandonare la propria casa e il proprio lavoro per la diffidenza (ma forse e me­glio dire la paura) nei confronti del nuovo governo jugoslavo, in seguito all’occupazione di tali re­gioni da parte dell’Armata Popo­lare di Liberazione della Jugosla­via del maresciallo Josip Broz Ti­to. Della tragedia dell’esodo si oc­cupa l’ultima fatica di Gianni Oli­va, storico, politico e scrittore pie­montese di fama nazionale: ‘Esu­li’, edito da Mondadori è presente in edicola da poche settimane. «Questo esodo è stato taciuto per anni – spiega il professor Oliva -, anche per ragioni di Stato». Ra­gioni di Stalo che erano pretta­mente commerciali: per dirla in breve, era meglio lasciare perdere quelle terre per vendere qualche macchina della Fiat alla Jugosla­via e guardare qualche ora di Tele Capodistria.

Professore Oliva, prima di analiz­zare il suo ultimo libro, ‘Esuli’, una domanda iniziale, per inquadrare il tema. Questi esuli all’epoca non fu­rono poi tanto amati, specialmente dal Partito comunista di allora: per quale motivo?

«Credo che ci siano varie motiva­zioni: la prima è che l’Italia ha per­so la seconda guerra mondiale, ma ufficialmente ha fatto finta di vincerla. Il peso della sconfitta lo hanno pagato soltanto le persone che stavano sul confine Nord Orientale. Quelli che sono stati in­foibati (tra le 8 e le 10mila perso­ne) e i 300-350mila che furono co­stretti ad abbandonare Fiume, l’I­stria e le altre ter­re, erano persone scomode, che ri­cordavano la scon­fitta e quindi non se ne è parlato per una sorte di silen­zio di Stato. Poi c’è stato un silen­zio di partito, il Partito comunista italiano, che aveva tutto l’interes­se a non parlare di Foibe perché l’eccidio era stato commesso da un partito ‘fratello”, che era quello del partito comunista jugoslavo. E poi per un terzo motivo, quello del silenzio internazionale, perché nel 1948 il maresciallo Tito è il pri­mo leader comunista che rompe i rapporti con Stalin e diventa una sorte di incrinatura nel monolite comunista. L’occidente comincia a guardare a Tito non come un al­leato, ma come un interlocutore che non si deve mettere in imba­razzo con domande difficili. E’ cu­rioso notare che l’ambasciatore americano e quello inglese a Bel­grado, fino al giugno 1948. ogni mese mandano al governo di Bel­grado lunghi elenchi di italiani scomparsi, chiedendo loro noti­zie. Dal giugno 1948 quando si rompono i rapporti fra Stalin e Ti­to, più nessuno chiede nulla. E quindi sugli infoibati e sulla storia del Nord Est cade un silenzio. E, come sempre sui silenzi della sto­ria, questi sono silenzi interessati, colpevoli e fatti di negazioni».

Da dove nasce la voglia di scrivere questo nuovo libro? Lei non è un profugo.

«No, non sono un profugo, non ho mai avuto rapporti con profu­ghi, nè amici o fidanzate quando ero giovane. E’ un interesse di stu­dio, perché ‘foibe’ è una parola che nel retro pensiero evocava qualcosa di sinistro, ma siccome a scuola nessuno ce ne aveva mai parlato non sapevo di cosa si trat­tasse esattamente. Poi all’inizio de­gli anni ’90, mentre mi trovavo a Washington per alcune ricerche sul periodo 1943-1945 e i rapporti fra alleati e resistenza, mi sono ca­pitati in mano dei faldoni che ri­guardavano i rapporti italo-jugo­slavi tra il ’45 e il ’48 e ho scoperto molto materiale che è presente an­che in Italia, ma non è visibile, per­ché sono documenti ancora coper­ti da segreto, mentre negli Stati Uniti d’America o a Londra si possono consultare».

Lei ha intervistato molti esuli. Qual è il loro stato d’animo?

 

«Ho intervistato alcuni esuli di pri­ma generazione, cioè quelli che so­no partiti da quelle terre quando erano già grandi e alcuni esuli di seconda generazione, che sono partiti quando erano bambini o sono nati quando erano già qui. Direi che per gli esuli di prima ge­nerazione è una ferita che non si è mai rimarginata, perché l’esule non è un emigrante. Un emigrante è uno che fa una scommessa sul fu­turo, anche se parte dalla dispera­zione, dalla fame, dalla miseria. Scommette sul futuro, e il sogno di queste persone è quello di toma-re al proprio paese col vestito buo­no per dimostrare che ce l’ha fat­ta. Invece l’esule è uno che parte lasciando il proprio presente, la­sciando il proprio passato, la pro­pria storia, il proprio campanile, il cimitero dove ci sono i suoi cari, mandato via senza una ragione. Va soltanto a rimpiangere quello che ha perso. E io credo che per gli esuli di prima generazione sia sta­ta un’esperienza tormentata, an­che per quelli che sono usciti abba­stanza in fretta dai campi profu­ghi e si sono inseriti nella società. Penso a quelli che erano nella mia città di Torino, che in quegli anni hanno trovato occupazione alla Fiat, sia perché il lavoro delle per­sone provenienti dal Nord Est è sempre stato consideralo notevo­le e apprezzato, sia perché veniva­no fuori dalla repressione dovuta al comunismo e quindi dal punto di vista aziendale erano più affida­bili in quegli anni. Anche questi, che sono riusciti ad inserirsi abba­stanza in fretta, questo peso se lo sono portato fino alla tomba. Di­verso è il discorso per i profughi di seconda generazione. Chi è nato qui si porta dietro la memoria fa­miliare, il ricordo ne parla, e final­mente da qualche anno a questa parte grazie a quella legge, che lei ricordava può anche andare nelle scuole a fare testimonianza e con­tribuire a ridestare attenzione per un argomento così a lungo taciu­to».

Quali forme di rimborso ebbero gli italiani esuli?

«Nessun rimborso, qui c’è la beffa che si aggiunge al danno. La Jugo­slavia ad un certo punto ha versa­to all’Italia una somma che si aggi­rava attorno ai 117 miliardi di franchi oro, come indennizzo per tutto quello che era stato requisito ai profughi, depositandoli in una banca del Lussemburgo. Il gover­no italiano ha usato quei fondi, per pagare i danni di guerra fatti durante l’occupazione della Jugo­slavia. Insomma una partita di gi­ro per cui i danni di guerra li han­no pagati i profughi».

Le terre di provenienza di queste persone erano a maggioranza ita­liana?

 

«Le zone del Nord Est, l’Istria e la Dalmazia sono state da sempre delle terre mistilingue, che storica­mente hanno fatto parte per secoli della Repubblica di Venezia. Do­po il trattato di Campoformio del 1797, sono entrati a far parte del­l’impero Austro Ungarico. Ma la popolazione era nettamente divi­sa, nel senso che chi stava sulla co­sta al 90% era italiano dedito ad attività commerciali e quant’al-tro. Gli slavi stavano nell’interno ed erano principalmente occupali nell’agricoltura. Quindi nel loro insieme erano terre mistilingue, ma in realtà al 90% italiani».

Si potevano quindi definire territo­rio italiano?

«Si potevano definire territori ita­liani, ma l’interno si poteva defini­re territorio sloveno piuttosto che croato».

Il 10 novembre 1975 l’Italia, con il trattato di Osimo, chiude il suo con­tenzioso con la Jugoslavia. Erava­mo obbligati a farlo?

«Il trattato di Osimo è la presa d’atto di una realtà che ormai du­rava da 30 anni. Nel senso che i confini che erano stati stabili sulla cosiddetta ‘linea Morgan’ dal no­me del generale americano che li aveva tracciali su una cartina geo­grafica e sono stati stabiliti il 12 giugno 1945. Ancor oggi sono grosso modo i confini tra l’Italia e la Slovenia. Quindi c’era nel 1975 il prendere atto di una situazione che da 30 anni era così. Più interes­sante sarebbe studiare le ragioni per cui nel 1975 è stato deciso di prendere atto di questo fatto. Se andiamo a guardare le ragioni sco­priamo che Tito era venuto due anni prima in Italia era stato a To­rino. Aveva fatto un accordo com­merciale con la Fiat per aprire aziende Fiat in Jugoslavia. Nello stesso tempo Tito era in un mo­mento di difficoltà al suo interno e quindi questa concessione è servi­ta in qualche modo a rafforzarlo. Sono le ragioni di Stato che vanno al di sopra delle ragioni delle per­sone».

L’esodo fu dovuto in parte anche ai massacri fatti dai partigiani comu­nisti di Tito, ricordiamo le foibe. Quante furono le vittime?

«Oscillano fra gli 8mila e le 10rnila persone. Ma la cosa drammatica non è soltanto il numero, ma la brevità temporale in cui sono con­centrati. Tito voleva annettere al­la nuova Jugoslavia comunista tutta la zona mistilingua, l’Istria la Dalmazia ed arrivare alla zona dell’Isonzo. Quindi comprenden­do nella nuova Jugoslavia Monfal-cone per i cantieri, Trieste per il porto e Gorizia perché snodo via­rio e ferroviario verso il centro Eu­ropa. Siccome a Yalta i grandi non aveva stabilito il confine futu­ro dell’Italia Nord Orientale, che poteva essere quella attuale, pote­va essere quello precedente al 1918, come poteva essere altro an­cora, Tito decide di spingere le sue truppe per arrivare a Trieste. E’ in quella zona prima degli angloame­ricani per creare una situazione di fatto. Arriva per primo il 30 di aprile e immediatamente Trieste cambia nome e inizia gli infoiba-menti. Da lì comincia l’eliminazio­ne di tutti coloro che potevano op­porsi all’annessione di quelle terre alla Jugoslavia. Quindi vengono eliminati tutti quei personaggi che avevano avuto ruoli nel passato regime fascista, ma viene elimina­to anche tutto il comitato di libera­zione della Venezia Giulia perché rappresentava la nuova Italia, quindi un’ostacolo ancora mag­giore all’annessione. Furono sterminati tutti coloro che rappresen­tano lo Stato italiano, sia che fos­sero maestri, funzionari delle po­ste o il responsabile della capitane­ria di porto. E’ evidente, che ci so­no delle compromissioni da parte di elementi italiani, evidentemen­te filocomunisti, che preparano le liste, perché i partigiani, che arri­vavano dalle montagne della Bo­snia e del Montenegro, difficil­mente sapevano a quali porte do­vevano bussare. Il 12 giugno 1945 gli alleati, americani, inglesi e so­vietici, trovano l’accordo su quel­la linea di confine di cui parlava­mo prima, la linea Morgan, che è ancora quella attuale. A quel pun­to non ha più senso, per necessità politica, infoibare nessuno perché ormai il confine è definito. Ma per la popolazione italiana che rima­ne nella parte di territorio che re­sta alla Jugoslavia, c’è la paura di quello che è accaduto in quei 40 giorni e la paura di quello che po­trà ancora accadere. Come l’Italia aveva imposto il suo nazionali­smo nel ventennio, così Tito impo­se il nazionalismo slavo che vuol dire emarginare la comunità italia­na ghettizzarla, eliminarla da qualsiasi posto di responsabilità. Ecco questo combinato di cose, la paura, l’inquietudine e la margina-lizzazione fanno percepire a quel­la generazione d’italiani che per lo­ro non c’è futuro e così decidono dipartire. Ma decidono di partire, lo sottolineo, senza un decreto di espulsione: è stata una scelta cui sono stati costretti dalla situazio­ne. Dico questo perché da un pun­to di vista psicologico è stato anco­ra peggio. Essere espulsi è subire un’angheria. Partire perché non si vede più futuro è fare una scelta portandosi dentro molto spesso il rammarico di averla fatta e con la paura di averla fatta sbagliandosi. L’Italia in cui questi profughi giungono, non è un’Italia partico­larmente generosa, né particolar­mente ricca: è un’Italia che esce dalla guerra, dove c’è distruzione e miseria. Perciò questi profughi vengono disseminati in 109 cam­pi: ce ne sono in tutte le regioni, la maggior parte sono caserme ab­bandonate, vecchi campi usati per i prigionieri di guerra. A Roma abitano nelle baracche utilizzate dagli operai per costruire l’Eur. A Fertilia, vicino ad Alghero, nei ca­pannoni di un’azienda agricola di una colonia di romagnoli. E in questa emergenza alcuni vivono per anni. Ho conosciuto anni fa una signora anziana, che piangen­do mi disse: «Quando ero una ra­gazzina aprivo la finestra della mia camera e vedevo il mare Adriatico che si infrangeva sugli scogli di Rovigno. Nel giro di qualche settimana sono finita a Tortona: ci vergognavamo a dire che stavamo al campo profughi della caserma Passalacqua, per cui davamo un indirizzo e un nu­mero civico. Nella caserma aveva­mo delle grandi camerate con co­perte di lana appese ad un filo che separavano il box della mia fami­glia da quelli delle altre. Non c’era una parola, un sussurro, un pian­to che non venisse sentito anche dagli altri. Avevamo la cucina e i servizi igienici in comune: sono vissuta nell’emergenza di sette an­ni».

Un’ultima domanda: quante perso­ne emigrarono da quelle terre?

«Circa 300mila persone, cioè il 90% degli italiani che abitavano quelle terre. Non è una cifra esat­ta, perché si possono contare solo quelli rimasti in Italia che si sono organizzati nelle associazioni pro­fughi. Altri invece sono emigrati negli Stati Uniti, in Canada e in Australia e si sono dispersi».

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