È morto a Udine la sera di Natale lo scrittore Carlo Sgorlon. Lo ha comunicato la famiglia sul sito ufficiale del romanziere friulano, che era nato a Cassacco il 26 luglio 1930. I funerali si svolgeranno martedì, alle ore 12, nella chiesa di San Quirino, a Udine.
Una delle sorprese (veramente tali) della mia vita è stata quella di trovare – nel 1999 – Carlo Sgorlon (e sua moglie, che lo accompagnava agli appuntamenti importanti; e ne è stata sempre fidata consigliera anche per il lavoro letterario) nella hall dell'Hotel New Otani Chang Fu Gong di Pechino.
Prima, i nostri incontri avvenivano – per lo più – nella sua casa di via Micesio, a Udine, non lontana dalla mia di allora. Grande viaggiatore soprattutto della fantasia, dotato di una grande forza di immaginazione, Sgorlon non amava gli spostamenti in luoghi lontani, meno che mai in aereo. Da ciò la mia sorpresa per questo incontro (inatteso) in Cina, dove era giunto con una comitiva di friulani, e poi di un nuovo appuntamento all'università dove – in appendice a un convegno di critici e di scrittori italiani (tra i quali anche Dacia Maraini) – veniva presentata la traduzione cinese di ”La conchiglia di Anataj” e di altre pagine di Sgorlon dedicate a Odorico da Pordenone. Sgorlon era molto fiero di quella traduzione, che mi regalò più tardi assieme a quella – successiva – di ”Il trono di legno”. La curiosità, la traduzione, l'aspettativa di un incontro con quelle terre lontane erano state capaci di smuoverlo dalla sua casa di Udine e da quella di campagna, dove attendeva quotidianamente al proprio lavoro di scrittura con regolarità e metodo.
Quello che colpiva, in lui, era proprio questa capacità di affidarsi alla forza di concentrazione, al rispetto degli orari, alla programmata metodicità di applicazione. Qualcosa che lo apparentava – con nobiltà – a quel lavoro artigiano che egli sapeva ammirare al punto da avere appreso nozioni di pittura e dell'arte dell'intaglio che gli avevano permesso di produrre anche quadri o mobili per sé, per il gusto della sperimentazione di attività che egli amava descrivere nelle proprie pagine, sempre molto documentate nei più minuti particolari; anche quando (e se) tutto ciò gli serviva per spiccare originali voli di fantasia.
Tra i narratori friulani del secondo ’900, affermatisi come altrettante presenze di rilievo nel panorama della letteratura italiana contemporanea (si pensi, tra gli altri, almeno a Elio Bartolini e ad Alcide Paolini), Sgorlon occupa una posizione di spicco. Nato a Cassacco nel 1930, Sgorlon si laureò alla Normale di Pisa in letteratura tedesca, con una tesi su ”Kafka narratore”, che divenne poi un saggio pubblicato nel 1961. Insegnante di lettere a Udine, in un istituto medio superiore, Sgorlon si mosse inizialmente – come narratore – con pagine dove una linea realistica si intrecciava con una ricerca nel mondo dei sentimenti (”Il vento nel vigneto”, scritto nel 1960 ma pubblicato nel 1973; una versione in friulano, ”Prime di sere”, era apparsa nel 1971).
L'esordio ufficiale di Sgorlon – nella narrativa – avvenne con un romanzo del 1968, ”La poltrona”, dove veniva esplorata una tematica psicologica complessa relativa a un fallimento esistenziale e al difficile rapporto tra realtà alienante e ricerca di libertà dentro se stesso. Nella prima fase della sua attività (”La poltrona”; ”La notte del ragno mannaro” del 1970) lo scrittore mostrava di voler coniugare il contesto di una realtà contadina con problematiche psicologiche ed esistenziali e con una rete di ossessioni drammatiche che trovavano una rappresentazione incisiva in una scrittura dove erano forti le suggestioni kafkiane ed espressionistiche. Nel corso degli anni Settanta, Sgorlon imboccò altre vie di ricerca alle quali si collegano titoli di opere divenute presto famose, a partire da ”Il trono di legno” (1973), ”R egina di Saba” (1975), ”Gli dèi torneranno” (1977). Ma si tratta di una linea che poi continua, in gran parte, fino ai testi più recenti. Una fase nella quale una scrittura piana e limpida sembrava voler raccogliere – in un racconto ricco di spunti immaginari e fantastici – i segni di un universo archetipico; e indicare i modelli originari alla luce dei quali sarebbe possibile rappresentare il senso autentico dell'esistenza, E ciò in un mondo che avrebbe la presunzione dell'oggettività; ma che, intanto, sembra voler sfuggire alla ricerca della propria identità e ignorare i segni eterni e immutabili del proprio destino. Questa sua poetica Sgorlon la precisava anche sul piano critico, per esempio nell'importante ”Invito alla lettura di Elsa Morante” (1972), dove affermava che «i grandi narratori dei nostri tempi non vanno cercati in Europa ma piuttosto in Sudamerica, in Russia, o in regioni culturali simili a queste, dove essi possono attingere misteriose energie dalla civiltà mitico-contadina, per certi versi tuttora intatta, cui appartengono».
Ecco, dunque, nelle pagine di Sgorlon, affermarsi l'interesse per una civiltà arcaico-contadina in decadenza di fronte ad altre forme di civiltà: un mondo che poteva animarsi e trovare una dimensione mitica, e quindi una sua illusoria positività e sopravvivenza, in figure di "animatori", di personaggi dalle eccezionali e misteriose capacità evocative e fantastiche : tramite con il passato più remoto e mezzo per profetizzare al presente. Dunque, anche la proposizione di una poetica del racconto nella quale lo scrittore sembrava proporsi come aedo, testimone e messaggero della civiltà contadina e della sua eternità di segno.
Attraverso una scrittura fluente e tersa, aliena dalle sperimentazioni tecniche e linguistiche, Sgorlon rappresentava – attraverso l'inarrestabile sviluppo inventivo delle sue storie e la proliferazione dei suoi personaggi – un mondo fatto di vicende di comunità e di presenze individuali in contesti per lo più marginali. Ma anche (si pensi a ”La contrada”, 1981; o a ”La conchiglia di Anataj”, 1993) l'inquietudine dell'identità, espressa da figure enigmatiche, ambigue, travagliate dall'ansia della realizzazione e da spinte alla fuga e al vagabondaggio, espressione – però – anche di un legame profondo con la propria terra e con i vincoli ancestrali.
Epica e fantasia, riflessioni sui destini degli uomini e sulle loro drammatiche insicurezze, sulla nostalgia, sulla vita e sulla morte sembrano animare anche un testo come ”L'armata dei fiumi perduti” (1985) dedicato a una pagina sanguinosa della Seconda Guerra mondiale com'è quella relativa ai Cosacchi in Friuli.
La riflessione di Sgorlon sul rapporto con la Terra e con la Natura, sulla sua necessità ma anche precarietà e difficoltà di realizzazione ha costituito il centro del lavoro narrativo di Sgorlon fino alle pagine più recenti di una bibliografia molto ampia che si estende a libri importanti come ”Le sorelle boreali” (2004), ”Il velo di Maja” (2006), ”L'alchimista degli strati” (2008). Che si propongono come portatori di messaggi caratterizzati da una carica di forte spiritualità e sacralità, ricchi di spunti ecologici ed etici. Spesso incentrati su tematiche di grande attualità come il rapporto tra natura e scienza, lo sfruttamento delle risorse naturali, il destino drammatico di popoli esuli, emarginati e oppressi (dagli Istriani agli Ebrei agli Zingari), l'emigrazione, la clandestinità, la sofferenza. Alle quali si contrappongono valori positivi : la forza dell'eros, della fantasia, dell'arte, l'incanto dell'avventura e dell'ignoto. Come nel viaggio (iniziato nel 1314) di Odorico da Pordenone in Estremo Oriente, narrato mirabilmente da Carlo Sgorlon in ”Il filo di seta” (1999).
Elvio Guagnini su Il Piccolo del 27 dicembre 2009