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27 feb – 70 anni fa il disastro dell’Arsa, peggio di Marcinelle

di Bruno Lubis su Il Piccolo del 27 feb

La miniera: più che un lavoro, una maledizione. Fatiche fisiche quotidiane e spossanti, a profondità sempre maggiori dove l’aria è più pesante e i polmoni si soffocano di polvere. Gli schiavi più riottosi, gli schiavi più impresentabili venivano inviati ad metalla (nelle miniere) a concludere in breve tempo la loro vita. Perchè gli incidenti erano all’ordine del giorno e il rischio di finire soffocati o travolti da crolli praticamente quotidiano. Così successe giusto 70 anni fa nelle miniere dell’Arsa, in Istria, alle 4 e 35 di una fredda mattina d’inverno. Era il 28 febbraio 1940.

Tutto colpa del grisou, quel gas più leggero dell’aria, inodore e incolore, praticamente metano mischiato ad altri idrocarburi, caratteristico delle miniere di carbone e di zolfo. Se si combina con l’aria si infiamma e origina scoppi formidabili. Successe proprio che una bolla di grisou deflagrasse in una zona della miniera di carbone che fece crollare paratie malmesse, gallerie scavate in fretta e furia, con scarsissima ventilazione. Un tratto dei 160 chilometri di cunicoli – rubati alle viscere della terra fino a 350 metri – non resse e ghermì 185 minatori che stavano completando il turno di notte.

L’Italia allora aveva estremo bisogno di energie per la produzione industriale, per il riscaldamento, per far andare i treni. L’ottimo carbone di quella parte dell’Istria era necessario e ogni anno la produzione veniva incrementata. Da mille che erano stati vent’anni prima, il numero di lavoratori salì fino a raggiungere le otto-diecimila unità. L’Italia stava per entrare in guerra ed era in terribile ritardo nella produzione di armamenti e strutture rispetto all’alleato nazista. Berlino e il Führer esigevano che l’Italia fascista si mettesse al passo con la fretta di conquista che promanava da Berlino verso l’Europa. Mica semplice stare al passo con la Germania. L’Impero da poco resuscitato assomigliava più a uno scenario teatrale che a una potenza statale, le risorse erano poche e mal distribuite, erano tanti gli italiani disposti a partire per l’avventura africana solo per migliorare le condizioni di vita. Ma il senso di italica grandezza faceva sì che gli italiani concorressero a produrre armamenti. Dei problemi di sicurezza sul lavoro non se ne curava nessuno, a parte i minatori medesimi che avevano già dato prova di sentimenti di ribellione e di solidarietà socialista. Ma nella gestione delle miniere era intervenuto lo stato che aveva in pratica militarizzato il lavoro.

In più, nei pressi delle miniere di carbone, Mussolini aveva voluto una cittadina per alloggiare minatori e famiglie. Nel 1938 era nato il comune di Arsia che doveva chiamarsi Liburnia (il nome della scomparsa schiatta di istri liburni). Fu visitata da Benito Mussolini medesimo e Bepi Matelich, allora sedicenne, ebbe la sua mano stretta da quella del duce e fu un ricordo lucido che accompagnò la sua lunga vita, tra incerte memorie. Bepi Matelich sfuggì allo scoppio per volontà del destino ma ebbe un parente ferito quella notte.

Furono 185 le vittime e mai l’Italia delle miniere patì simile strage di lavoratori. Si ricorda Marcenelle in Belgio dove un centinaio di nostri connazionali persero la vita. Marcinelle fu figlia dell’Arsa perchè nel dopoguerra l’Italia assicurava al Belgio un numero di lavoratori capaci di estrarre carbone in misura pari al fabbisogno nazionale. Se qualcuno scappava dalla zona di Charleroi veniva subito ricercato dalle forze dell’ordine e restituito al Belgio: un diritto di schiavitù feudale alla base del nostro miracolo economico nel dopoguerra. Ma i minatori erano militarizzati già da prima e non era ammesso protestare nè rifiutarse il lavoro, anche se le condizioni di sicurezza erano al minimo. Racconta Giulio Cuzzi, ragazzino all’epoca, che suo padre si lamentava delle condizioni di poca sicurezza. Nessuno ascoltava e nessuno si prese la colpa del disastro. Tanti istriani, bergamaschi, sardi e un gruppo di bellunesi furono tra i morti. Il nostro giornale, solo una settimana prima dello scoppio, in prima pagina e con titoli a cinque colonne elogiava la produttività dei minatori e incitava a sforzi ancora maggiori. Ma a tragedia avvenuta, in una pagina interna e con titolo a due colonne fu data notizia del crollo di una galleria e di 60, e più tardi 80, morti. Già il 4 marzo si leggeva che il lavoro era ripreso a pieno ritmo nelle gallerie di carbone in quella terra piena prima di paludi malsane e bonificata poi per estrarre il combustibile che avrebbe spinto l’Italia verso una vittoria rapida e sfolgorante. Non fu così. La sfida del fascismo al mondo fu lanciata da piazza Venezia a Roma, ma ai proclami non seguirono marce trionfali ma desolate colonne sconfitte. E dei morti dell’Arsa ci si dimenticò.

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