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28 nov – Giraldi e la ”trilogia di frontiera”

di ELISA GRANDO su Il Piccolo del 28 novembre 2010

Franco Giraldi è tornato a casa, alla frontiera, a quel “paesaggio dell’anima” che gli appartiene intimamente e che ha segnato il tragitto più personale del suo cinema. Dopo 58 anni di vita trascorsi a molti chilometri da qui, tra la capitale e Fiano Romano, il regista nato a Comeno (nel 1931, quando non era ancora Slovenia ma provincia di Gorizia) si è trasferito da poco più di un mese a Gradisca, questa volta per rimanerci.

«Sono partito nel 1952, a vent’anni, quando facevo il critico della pagina triestina dell’ “Unità” – racconta Giraldi -. La fascinazione del cinema è nata a Trieste frequentando il Circolo della Cultura e delle Arti e Callisto Couslich: viveva a Roma e mi ha incoraggiato a fare il salto. Lì ho avuto la fortuna di convivere con lui e Gillo Pontecorvo, avevamo un appartamento in comune».

In quegli anni è cominciata anche la sua carriera nel cinema, prima come aiuto di Pontecorvo, Giuseppe De Santis e Sergio Leone (in “Per un pugno di dollari”), poi come regista autonomo capace di attraversare i generi (il western, fin dal debutto del 1966 con “Sette pistole per i MacGregor”, e la commedia all’italiana, con film come “La bambolona” e “La supertestimone”). È proprio riavvicinandosi tematicamente alle origini che trova però la sua cifra d’autore, anche con tre film d’ispirazione letteraria che a posteriori formano una sorta di “trilogia della frontiera”: “La rosa rossa” (1973), tratto da un racconto di Pier Antonio Quarantotti Gambini, “Un anno di scuola” (1977) dal romanzo di Giani Stuparich e “La frontiera” (1996) da quello di Franco Vegliani.

Giraldi, cosa l’ha spinta a tornare?

«Vivevo a trentacinque chilometri da Roma e il rapporto con la città era diventato più faticoso, mentre a Gradisca sono in un tessuto umano e sociale molto presente. Il motivo più profondo, però, è che qui ritrovo il mio “paesaggio dell’anima”: vivo poco lontano da Trieste, la città dove ho fatto il liceo, e dal Carso, dove ho vissuto gli anni drammatici ma affascinanti della guerra. È un mondo che mi piace avere vicino».

Ci pensava da molto tempo?

«È un progetto che avevo già con mia moglie Palmira, un medico che ho conosciuto a Fiano. Era rimasta incantata dal mondo triestino e friulano e aveva ottenuto il posto di cardiologa all’ospedale di Gorizia. Purtroppo tre anni fa è morta all’improvviso ancora giovane, a cinquant’anni. Ora abito proprio nella casa che lei aveva acquistato a Gradisca».

A Fiano Romano saranno rimasti molti ricordi…

«Quella è una casa molto bella, lì ci sono ancora tutti i miei libri. L’ho costruita negli anni ’70 insieme a Giuseppe De Santis, abitavamo nello stesso palazzo. Lasciarla è stata una scelta forte ma sono felice, anche perché qui ho molti amici di vecchia data come l’avvocato Nereo Battello: parte dell’infanzia l’abbiamo vissuta insieme a Comeno».

I suoi genitori sono entrambi triestini, sua madre di famiglia slovena e suo padre di origini piranesi. Lei stesso nasce respirando l’atmosfera del confine…

«È il mondo a cui sono più legato, quello di cui mi sono nutrito da giovane. La mia carriera è partita da Roma con maestri come Pontecorvo, De Santis e Lizzani ma poi è stato Tullio Kezich, quando lavorava alla Rai, a favorire il mio ritorno espressivo verso questi posti. Grazie a lui ho fatto i film che mi stanno più a cuore, “La rosa rossa” e “Un anno di scuola”. Tullio è stato sempre presente, come un catalizzatore della mia professione. Ho cominciato coi western, di cui lui era appassionato, perché ho lavorato con Leone e mi veniva proposto questo genere: ho cercato di fare al meglio il mio mestiere, senza snobismo, anche se quello a cui tendevo era il cinema di frontiera».

 

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