di ALESSANDRO MEZZENA LONA su Il Piccolo del 31 gennaio 2011
Sono passati solo sei anni. E già il Giorno del Ricordo è diventato un rito. Uno dei tanti disseminati nel calendario delle celebrazioni obbligatorie. Quando, nel 2005, il Parlamento italiano decise, con voto quasi unanime, di dedicare una giornata al ricordo della tragedia delle foibe, dell’esodo degli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia, le televisioni, i giornali, le amministrazioni pubbliche sparse in tutto il Belpaese, si scatenarono. Proponendo fiction, tavole rotonde, spettacoli, concerti, incontri con i sopravvissuti.
Poi, neanche troppo lentamente, tutto è rientrato nella normalità. E adesso? C’è il rischio che anche il Giorno del Ricordo si trasformi in un’occasione rituale. Smarrendo la propria carica evocativa. Lo dice chiaro e tondo Gianni Oliva, studioso del Novecento italiano e autore di saggi come ”Profughi”, ”Si ammazza troppo poco”, ”L’ombra nera”, ”Foibe”, nel suo nuovo lavoro ”Esuli. Dalle foibe ai campi profughi: la tragedia degli italiani di Istria, Fiume e Dalmazia”, che la casa editrice Mondadori (pagg. 192, euro 22) distribuisce nelle librerie domani.
Un libro per immagini. Un saggio dove le parole servono soprattutto a contestualizzare, nella storia di quegli anni terribili, un’ampia selezione di immagini in bianco e nero: drammatiche e belle, macabre e cariche di nostalgia. Comunque indispensabili per ricordare, a chi ancora non lo sa e a chi ha voluto dimenticare, che alla disastrosa guerra d’aggressione che l’Italia fascista condusse, al fianco della Germania nazista, nei Balcani seguì la sanguinosa reazione dei partigiani comunisti di Tito. Con infoibamenti, esecuzioni sommarie, persecuzioni etniche. Fino all’esodo di massa della popolazione italiana dalle terre in cui viveva fin dai tempi della Repubblica di Venezia.
«Tutte le date che ricordano qualche evento, gioioso o doloroso che sia, rischiano di diventare un rito scontato – spiega Gianni Oliva -. Credo che lo stesso discorso valga per il Giorno della Memoria il 27 gennaio, per la Liberazione il 25 aprile, e così avanti. Non so se nemmeno un anniversario come quello per i 150 anni dell’Unità d’Italia sia veramente sentito dalla gente».
Cosa può salvare il Giorno del Ricordo dal rischio di diventare un rito, e basta?
«Credo solo una narrazione popolare, cioè che sia recepita a livello di massa, può evitare la ritualizzazione. Mi spiego meglio: è necessario che la storia delle foibe, dell’esodo dall’Istria, diventi veramente un patrimonio collettivo di memoria per gli italiani. In questi casi non basta delegare alla scuola, alla famiglia, all’amministrazione pubblica».
Chi dovrebbe incaricarsene, allora?
«Credo che una fiction discutibilissima come ”Il cuore nel pozzo” abbia raccontato all’Italia quella tragedia più di mille libri di storia. Certo che se, poi, continuiamo a fare il ”Grande Fratello” o ”L’isola dei famosi” e non ci inventiamo qualcosa di più interessante, allora il discorso è chiuso in partenza. E non sto pensando, ovviamente, a portare sul piccolo schermo noiose lezioni professorali».
È da qui che ha preso forma l’idea del libro ”Esuli”?
«Raccontare una storia attraverso le immagini, oggi, può essere la soluzione giusta. Anche pensando alla fretta che ci incalza ogni giorno di più. Le foto raccontano molto più di un testo, che magari non si riesce nemmeno a leggere per intero. Ad esempio, l’immagine di un campo profughi, lo scempio delle città bombardate, il dolore degli istriani che lasciano la loro terra. Lì non servono tante parole».
Com’è arrivato lei, nato a Torino, senza radici nel Nordest, a queste storie?
«È vero, non c’è niente che mi leghi all’Istria, alla Dalmazia, alla Venezia Giulia. Sono torinese, figlio di torinesi, non ho mai avuto fidanzate a Trieste e dintorni. Ci ho vissuto solo un anno, quando facevo il soldato tra la caserma di via Rossetti e il Comando truppe. Il mio interesse è nato studiando. E se devo essere sincero, c’è una storia ben più tragica di quella delle foibe».
Quale sarebbe?
«L’esodo della popolazione italiana dall’Istria. Certo che i morti delle foibe sono una delle vergogne del Novecento. Però, secondo me, lo sradicamento di un’etnia dalla propria terra mi sembra ancora più spaventoso. Se poi pensiamo che gran parte d’Italia ha ignorato tutto ciò fino a pochissimi anni fa…».
La violenza, in queste terre, era iniziata molti anni prima. Con la caccia fascista allo sloveno…
«Lo ricordo nell’introduzione di ”Esuli”. Non per giustificare le foibe come reazione alla violenza fascista. Ma perché credo che, nella Storia, quello che è accaduto prima e dopo aiuti a inquadrare meglio il problema. È ovvio che senza il fascismo, la violenza, la guerra d’aggressione, tutto sarebbe andato diversamente».
Non manca nel libro un ritorno a un passato ancor più remoto…
«Per spiegare la presenza di una popolazione italiana così forte nell’Istria. Se non si conosce la storia della Repubblica di Venezia in quelle terre, si finisce per non capire niente».
Scegliendo le foto, quali l’hanno colpita di più?
«Senza dubbio quelle delle foibe sono terribili. Macabre, con i resti dei corpi recuperati dagli inghiottitoi carsici. Ma se devo dire quale foto mi ha emozionato di più, direi quella del negoziante che è pronto ad abbandonare la propria bottega. E lascia un cartello con la scritta ”Saluti e grazie a tutti i clienti e buona fortuna”. Il ritratto di un’angoscia smisurata».
Non è la prima volta che racconta queste storie.
«Ho già dedicato due libre alle ”Foibe” e ai ”Profughi”. Tutto è nato nel 1992. Quando sono andato a Washington a studiare alcune carte per un lavoro sulla Resistenza italiana, che stavo preparando. Mi interessava consultare i materiali che riguardavano i rapporti tra i partigiani e gli anglo-americani. Tra i vari faldoni ce n’erano alcuni che riguardavano le foibe».
Aveva già approfondito l’argomento?
«No, lo conoscevo in maniera superficiale. Ma è stato proprio dallo studio di quei documenti che mi è venuta voglia di approfondire l’argomento. In seguito ho fatto altre ricerche al Public Record Office di Londra. Lì sono conservate tutte le relazioni scritte dagli ufficiali inglesi e americani presenti a Trieste nel maggio del 1945. Testimonianze né troppo estreme né troppo blande. Attendibili, insomma».
Poi ha incontrato i sopravvissuti, i testimoni?
«Sì, in tantissime occasioni. A Fertilia come a Roma, a Marina di Pietrasanta come a Trieste. Una storia su tutte mi ha colpito. Quella di una donna di Tortona, vicino ad Alessandria. Piangendo mi ha raccontato che da bambina, aprendo la finestra della sua stanza, vedeva il mare di Rovigno. In poche settimane è finita nel centro profughi di Tortona dove il suo orizzonte era la coperta di lana messa lì a dividere un box dall’altro».
Le foibe sono state il dramma dei morti..
«E l’esodo quello dei vivi. Tra l’altro, in questi anni, ho scoperto che la canzone di Sergio Endrigo ”L’arca di Noè”, arrivata terza al Festival di Sanremo nel 1970, era dedicata alla nave Toscana. Quella che portò via per sempre gli italiani dall’Istria. Ogni tanto mi ritornano in mente le parole: partirà, la nave partirà…».