Nella tarda estate del 1943 l’uscita dell’Italia dal conflitto, che avrebbe reciso l’alleanza con il Terzo Reich, era ormai solo questione di tempo. Se dopo il 25 luglio il nuovo capo del Governo, Pietro Badoglio, aveva assicurato il proseguimento della guerra e quindi l’osservanza degli obblighi che legava la Nazione al Patto d’Acciaio, con l’8 settembre si giunse all’annullamento di tutti i vincoli. Per i tedeschi si trattava di un vile voltafaccia, che meritava una condanna inflessibile.
Nelle prime ore del mattino del 9 settembre 1943, il maresciallo Badoglio con il suo governo, gli Stati Maggiori, nonché la casa reale abbandonarono la capitale per evitare la quasi sicura cattura da parte delle forze tedesche. Arrivati ad Ortona, non lontano da Pescara, s’imbarcarono sulla corvetta “Baionetta” e nel primo pomeriggio del 10 giunsero a Brindisi. Nella città pugliese tentarono di imbastire uno Stato, o almeno una sua parvenza, ma era un tentativo arduo, anche perché non aveva alcuna consistenza politica.
Il crollo istituzionale non risparmiò le forze militari. Rimasti senza direttive, con i comandi ormai inesistenti e un Paese al collasso, i soldati furono sopraffatti e catturati dai reparti della Wehrmacht, le cui divisioni erano affluite numerose dal 26 luglio in poi. Immediatamente dopo l’annuncio dell’armistizio fu diramato il messaggio in codice “Ernte einbringen!” (Ritirate il raccolto!), relativo all’operazione di disarmo delle forze militari italiane, 1.700.000 uomini circa, disseminati nella penisola e nei territori occupati. I reparti germanici erano bene armati, motivati e ricevettero precisi ordini di lavare l’onta del voltafaccia dell’alleato di un tempo. Trovarono un esercito in sostanza inoffensivo, che, salvo alcune eccezioni, come nel caso della battaglia di Porta San Paolo a Roma, era smarrito, scoraggiato e desideroso di abbandonare le armi.
Con la capitolazione, si riteneva che la guerra fosse in verità terminata e che tutti potessero ritornare alle proprie case. La regia Marina, invece, ebbe una sorte migliore, le sue unità lasciarono La Spezia per raggiungere Malta, come era stato stabilito dall’armistizio corto. Tra gli episodi più noti ricordiamo l’affondamento, avvenuto il 9 settembre, della corazzata “Roma”, costruita nei Cantieri Riuniti dell’Adriatico, a Trieste e Monfalcone, e consegnata solo quindici mesi prima. Intercettata dalla Luftwaffe all’altezza dell’isola della Maddalena, la nave ammiraglia della flotta fu colpita da due bombe radio-guidate; persero la vita 1352 uomini, compreso l’ammiraglio Carlo Bergamini. Da Taranto, inoltre, salparono cinque grosse navi al comando dell’ammiraglio Alberto Da Zara, sulle quali vi erano anche gli equipaggi provenienti da Pola. L’aeronautica riuscì a spostare circa 250 velivoli nel sud Italia, ma non tutti si trovavano in condizione di combattere.
Fin dal crollo del fascismo, i tedeschi avevano radunato mezzi e truppe ai confini con il Regno. L’occupazione delle posizioni strategiche fu immediata, pertanto la notizia appresa la sera dell’8 settembre non colse affatto impreparati i comandi militari della Wehrmacht. E per le terre che entrarono nello Stato italiano al termine della Prima guerra mondiale, con il crollo dell’Austria-Ungheria, si schiusero scenari nuovi.
La Venezia Giulia e il Trentino Alto Adige furono staccati da quel nesso statuale e annessi direttamente al Terzo Reich. Furono istituite le “zone di operazioni” del Litorale Adriatico e delle Prealpi. Era la conseguenza del Nuovo ordine europeo e della sistemazione geopolitica prevista da Berlino. Per altri versi era il coronamento dei propositi pangermanisti, a lungo avversati sia dai liberalnazionali italiani sia dalle forze politiche slovene, soprattutto, e croate attive tra Otto e primo Novecento. Non a caso la giurisdizione delle due zone ricordate fu affidata ad altrettanti gauleiter, rispettivamente Friedrich Rainer e Franz Hofer, che sostenevano con convinzione quell’orientamento.
In una pubblicazione in lingua tedesca uscita nel 1943 si legge che: “L’Istria e Trieste sono per una potenza italiana soltanto un’appendice, ma per l’Europa centrale sono la finestra sull’Adriatico”. L’intento che si desiderava raggiungere in quelle che un tempo erano state le province meridionali dell’impero asburgico era la creazione di una posizione difensiva dell’Europa centrale germanica, che allo stesso tempo svolgeva un ruolo di congiunzione tra il fronte italiano e quello balcanico. In più avrebbe dovuto bloccare un eventuale sbarco alleato, caldeggiato soprattutto dal primo ministro britannico Winston Churchill, un’operazione militare che avrebbe proiettato quelle armate in direzione dello scacchiere danubiano, bloccando di conseguenza l’avanzata dell’Armata rossa e del comunismo.
Nella Venezia Giulia, nonostante la rapida estensione del controllo da parte dei nazisti, inizialmente solo sui centri maggiori, si assistette ad una vigorosa reazione da parte della resistenza slovena e croata, che proprio con il crollo militare italiano, intravide la fine di una dominazione avversata da tempo. Il fascismo, che si identificava nello Stato italiano, attraverso la sua politica fortemente discriminatoria nei confronti delle popolazioni slave incluse entro i confini stabiliti a Rapallo (mise in atto un genocidio linguistico, culturale e nazionale) non fece altro che inimicarsele.
E alla prima occasione propizia, con le armi in mano queste s’impegnarono a staccare quelle terre per includerle nelle rispettive matrici nazionali e accorparle allo Stato voluto da Tito. Si trattava di una regione contesa già nel corso del XIX secolo e l’annessione al Regno sabaudo non fu mai accettata. Fu giudicata una pagina nera, poiché aveva reciso gli sloveni ed i croati dallo Stato degli slavi meridionali sorto sulle ceneri della monarchia danubiana, aggravata ulteriormente dalla condotta del regime del littorio.
Essa divenne di conseguenza un teatro di aspri scontri, di rivendicazioni, di rese di conti, ma anche di nuovi soprusi, perpetrati con il fine di decapitare l’apparato statale italiano e chi lo rappresentava. In breve tempo, infatti, delle autoproclamazioni accolte dai due movimenti di liberazione avrebbero stabilito arbitrariamente la loro unione rispettivamente alla Slovenia e alla Croazia nell’ambito della nuova Jugoslavia. Vi era, dunque, un’aspirazione irredentista.
L’obiettivo principale era la creazione di una nuova statualità e quindi il capovolgimento dell’ordine nazionale e sociale. Per gli sloveni, in particolare, si trattava di acquisire dei territori sia ad occidente sia a settentrione che, dal loro punto di vista, erano stati perduti nel primo dopoguerra a causa degli iniqui trattati di pace, ai quali includevano la Slavia Veneta, sottratta dall’Italia all’impero danubiano nel 1866. Con l’unione di quelle regioni si sarebbe compiuta l’auspicata “Slovenia unita”, il cui programma politico-nazionale risaliva al 1848, ma che non poté attuarsi per il deciso e prolungato ostacolo della politica asburgica. Inoltre, se è vero che quei territori divennero lo sbocco adriatico del Terzo Reich, per un mese circa quell’area fu una sorta di “terra di nessuno”, il cui controllo fu assunto in buona parte dal movimento partigiano, che non fu esente da eccessi, come lo testimoniano le eliminazioni e gli infoibamenti.
Quegli episodi non furono solo una jacquerie, ossia una rivolta spontanea contro l’oppressore, ma rientravano in una strategia delineata in concomitanza con la crisi del fascismo e il successivo sentore di una defezione italiana dal conflitto. Specie nell’area istriana vi fu una pulizia classista e politica, che si sovrapponeva a quella di ordine nazionale, che non rappresentava il movente unico. Per altri aspetti si assistette a una ripresa del risorgimento nazionale slavo, soffocato nel primo dopoguerra, condotta con metodi violenti, discostandosi quindi dalla cornice legalitaria d’età asburgica, per degenerare in una sequela di atti terroristici e sanguinari. Diego de Castro nella prefazione al volume “Il paese del faro” di Mario Maurel rammenta di aver lasciato Salvore alla fine del settembre 1943, “non appena giunte dall’Istria meridionale le notizie che i partigiani di Tito buttavano nelle foibe gli italiani, fascisti o non fascisti che fossero, ed anche quelli, tra gli slavi, che non sarebbero stati certamente disposti alla diffusione del vigente comunismo staliniano”.
Nella Venezia Giulia si consumarono le dinamiche del movimento di liberazione jugoslavo, già collaudate nello spazio balcanico, che prevedevano la liquidazione di quanti erano genericamente definiti “nemici del popolo”, avversi cioè alla rivoluzione. Tale quadro della situazione emerge anche dalle valutazioni coeve di fonte avversaria. In un rapporto inviato dalla prefettura di Trieste al capo della polizia a Roma, del 30 gennaio 1944, ad esempio, si riporta che dopo l’armistizio e lo sbandamento delle forze militari italiane “gli episodi di violenze, le rapine, gli attentati, le imboscate cruente, i prelevamenti di persone a scopo di vendetta politica e di arruolamento forzato dei giovani tra le file dei ribelli si sono moltiplicati (…)”.
Era anche l’inizio di quel lungo fenomeno che oggi definiamo esodo, che avrebbe portato al quasi annullamento dell’italianità autoctona lungo l’Adriatico orientale. Nella relazione settimanale della prefettura di Pola al Ministero dell’Interno (26 dicembre 1943) si legge che le popolazioni dell’interno “rivelano uno stato di allarme tale, da cagionare un continuo esodo delle famiglie italiane e di alcune altre allogene che, terrorizzate dai recenti massacri, hanno motivo di temere atti di nuove rappresaglie da parte dei ribelli”.
Il suolo italico era divenuto teatro di aspre battaglie. I profluvi di parole di Mussolini che decantavano la riemersa potenza mediterranea di un popolo che faceva riferimento all’Urbe, erano svaniti con la scia di morte e di distruzione. Era stata infranta anche l’unità del Bel Paese, che sembrava ormai precipitato in una condizione d’antico regime, con una penisola divisa da potenze straniere e occupata da eserciti che si affrontavano, mentre il popolo italiano, schierato su posizioni contrapposte, era piombato in una cruenta guerra fratricida.
Kristjan Knez
“la Voce del Popolo” 9 settembre 2013