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Mio padre profugo ma senza qualifica (Il Piccolo 16 set)

LETTERE

«Niente qualifica di profugo»: ecco cosa si sentì rispondere mio padre una volta arrivato a Trieste nel lontano 5 maggio 1955. La mia famiglia aveva riparato a Trieste abbandonando Cittanova d’Istria, dove ero nato nel 1954. La firma del Memorandum di Londra aveva aperto l’ultima possibilità per gli italiani d’Istria di optare per la madrepatria. Era ormai evidente che la casa, gli amici, il lavoro, avevano assunto il volto definitivo della Jugoslavia comunista. Mio padre non esitò. Con il classico materasso arrotolato sui camion la famiglia raggiunse il campo profughi di Trebiciano. Fu un colpo durissimo.

Eravamo in famiglia: Nadia 15 anni, Marisa 8 anni, io 13 mesi, mia madre e mio padre. Ma… niente «qualifica di profugo», vale a dire quell’insieme d’aiuti e sostegni fondamentali forniti agli esodati italiani per rifondare una vita azzerata. Perché? Mio padre aveva la «colpa» di essere stato partigiano combattente. Nel settembre 1943 aveva fatto brillare il ponte di Sicciole per ostacolare l’avanzata tedesca lungo il litorale istriano. Aveva combattuto una guerra sacrosanta, ma, a giudizio della Commissione per l’assegnazione della qualifica di «profugo», l’aveva combattuta assieme all’Of (il Fronte di liberazione jugoslavo), in una parola, assieme agli slavo-comunisti. Il rifiuto però fu formulato con l’impersonale linguaggio degno della burocrazia d’apparato: «…la domanda è stata respinta per motivi politici». E dire che a mio padre, subito dopo arrivato, votò Democrazia cristiana. Fu il primo pressante suggerimento che gli fu dato. Era nato nel 1915 e non aveva mai conosciuto la democrazia. Era vissuto nel fascismo e poi aveva fatto la guerra e poi la Resistenza. Non aveva nessuna idea politica che non fosse quella, sacrosanta di un reciso rifiuto del fascismo e del nazismo. Parlava il croato e non esitò a combattere assieme all’Of perché era indubbio che sul terreno, come si usa dire, l’Of era l’unica organizzazione antifascista organizzata. Si trattava di una priorità militare e non politica.

Tuttavia non passò molto tempo dopo la vittoria, che mio padre ebbe modo di ricredersi sul reale spirito democratico di quella resistenza fasulla. Non solo dovette assistere alla fine ignominiosa di alcuni amici italiani democratici come Pocecai di Umago, ma fu a suo tempo imprigionato e condannato, a porte chiuse, a tre mesi di lavori forzati. Ma tutto questo non gli servì a recuperare credito presso la Commissione per l’assegnazione della «qualifica di profugo»: su di lui aleggiò il sospetto che fosse un «comunista» senza tessera, magari uno stalinista, all’epoca in rotta con Tito.

L’ostracismo non gli fu mai tolto, anche quando quei tempi difficili passarono e ci si rese ben conto che mio padre nemmeno sospettava l’esistenza del Cominform e del Titoismo e roba del genere. Era politicamente incolto mio padre, ma aveva uno spiccato senso della giustizia e il senso della sua dignità.

Questa lunga tiritera sulla mia famiglia non avrebbe senso se non portasse almeno a una breve conclusione generale. Vale a dire di quanto la repubblica italiana, nata dalle ceneri della dittatura, sia stata anche molto ingiusta con i suoi figli migliori, di quanto i partiti anticomunisti e di governo fossero stati a loro volta sordi e ciechi di fronte alla realtà complessa e difficile delle nostre terre. Aggiungo così un codicillo che mi pare pertinente: la madrepatria, in generale, non sempre ha capito l’Italia e gli italiani dei nostri confini, non sempre ha saputo ascoltare la nostra complessità. Ciò ha condizionato anche il modo di essere dei nostri partiti locali, della nostra classe dirigente, a tratti vittimistica, querula e clientelare. Io credo, invece, che bisogna rimboccarsi le maniche e fare, senza chiedere una seconda volta, mai.

Marco Coslovich

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