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06 ott – Stella: Gorizia, dove il confine è nella testa della gente

di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella su corriere.it del 5 ottobre 2010

I sepolcri di Bossi Alessandro del 34º fanteria, Bossi Antonio del 225º, Bossi Carlo del 49º e Bossi Gualtiero del 13º bersaglieri sono in ordine. Niente crepe. L’Umberto, qualora fosse in pena per quei suoi omonimi morti per l’Italia e sepolti a Redipuglia, stia sereno. Dopo la denuncia su il Piccolo della scoperta che una parte del grandioso sacrario si stava sgretolando e che tra le lastre si erano aperte feritoie attraverso le quali si vedevano le costole e una tibia di Luigi Fiori, la scatola cranica di Luigi Campurra, il teschio di Antonio dal Bò, una mano pietosa ha già passato sulle fessure una cazzuola col cemento. Per un restauro più serio, si vedrà… Altri soldi, oggi, non ce n’erano. Neppure per tenere in ordine quello che dal 1938 è il più imponente monumento funebre dedicato dal paese a quanti persero la vita in nome suo.

Ma è tutta l’area a essere esposta a una malinconica decadenza. A partire dal suo capoluogo. Scriveva mezzo secolo fa in Italia sotto inchiesta Gianfranco Piazzesi che Gorizia subisce «il flusso e il riflusso della marea del sentimento nazionale». Niente vie di mezzo: «è il suo destino passare da uno stato convulso al letargo, di essere o troppo al centro o troppo ai margini, o troppo “dentro” o troppo “fuori”, senza mai diventare una città come le altre: né “sacra” ma nemmeno negletta, né ricca né depressa, solo una cittadina di provincia, con i suoi 40.000 abitanti intenti, come Dio comanda, ad aumentare di numero e in benessere».

Di numero mica tanto: quella che fu capitale della grande contea di Gorizia che nel momento della sua massima espansione comprendeva quasi tutto il Friuli orientale, una parte dell'Istria e del Tirolo e pezzi della Carinzia e della Stiria e poi la sede dell’Arcidiocesi «erede» della potenza di Aquileia estesa da Cortina d’Ampezzo fino ai confini con l’Ungheria, ha oggi 35.000 abitanti. E dopo essere stata sorpassata, sia pure grazie agli immigrati, da Monfalcone, sta ormai per essere raggiunta dalla «cugina» slava, Nova Gorica nata nel 1947 sui terreni paludosi della periferia. Quanto al benessere, la caduta dei confini che la schiacciavano contro l’Est comunista ha paradossalmente aggravato la sua marginalità. E acuito la sua crisi.

Era una volta, scrive Piazzesi, la «città più meridionale dell’impero asburgico». La Taormina dei viennesi. Poi diventò, in seguito alle undici sanguinosissime battaglie dell’Isonzo, «l’estremo confine settentrionale di un paese che si estendeva per mille chilometri più a sud. Il suo clima divenne di colpo rigido ingrato, le sue verdure e le sue ciliegie ora maturavano in ritardo». Per diventare infine il simbolo stesso, con quella enorme Stella Rossa sul tetto della vecchia stazione ferroviaria rimasta al di là della frontiera, in Jugoslavia, del confine tra oriente e occidente.

Certo, è cambiato tutto. Quella Stella Rossa incombente è oggi esposta nel piccolo ma interessante museo allestito dentro la stazione insieme con i «prepustnica» (i lasciapassare), le divise dei «graniciari» (le guardie che sorvegliavano il confine cittadino pronti a sparare su chi non si fermava all’alt), le foto ingiallite dei soldati inglesi con in mano i secchi di calce il giorno in cui, nel 1947, tracciarono i confini tra il centro di Gorizia la sua periferia orientale, tra l’Italia e la Jugoslavia, tra l’Occidente e il comunismo, con criteri che nessuno ha mai capito. Men che meno quel contadino di una celeberrima immagine che vide la Cortina di ferro attraversargli l’aia tra la casa e la stalla, proprio sotto la pancia di una vacca ignara di geopolitica almeno quanto le autorità alleate.

La testa della buonanima che nel cimitero di Merna si ritrovò sepolta in terra italiana e separata dal busto, dalle braccia dalle gambe sepolti in terra titina, si è da tempo ricongiunta (anche geopoliticamente) col resto del corpo. E non ci sono più i poliziotti armati a sorvegliare i fedeli goriziani che ad ogni appuntamento annuale avevano continuato a salire anche negli anni comunisti lungo il percorso dell’antica via Crucis che dalla bellissima via della Cappella (territorio italiano) si inerpica su su fino al monastero francescano della Castagnavizza (territorio sloveno) dove sono sepolti i resti degli ultimi Borboni di Francia. E viene raccontata ormai come una curiosità la storia di quel goriziano che ha la casa sotto la sovranità di Roma e l’accesso al garage sotto la sovranità di Lubiana.

Quel confine che segò brutalmente i poderi della famiglia Zoff e separò improvvisamente fidanzati da fidanzate e spinse per decenni le famiglie divise a incontrarsi sul piazzale segato in due della stazione dove le mamme mostravano orgogliose il figlioletto appena nato ai nonni o ai cugini rimasti dall’altra parte, è rimasto però, sventuratamente, dentro la testa della gente. Troppi traumi. Troppi dolori. Troppo odio.

Non solo da parte italiana, se è vero che ancora una manciata di anni fa, con la Slovenia ormai in Europa, certi nostalgici ricostruirono sul monte Sabotino che domina la città quella scritta enorme fatta di pietre gigantesche che tuonava «Nas Tito». Nostro Tito. Al che anonimi patrioti italiani, sul versante nostrano dello stesso Sabotino, rinfrescarono «W l’Italia». Tanti anni di rapporti difficili hanno lasciato strascichi difficili da accantonare. Soprattutto dopo gli strazi delle foibe.

Fatto sta che solo poche settimane fa, grazie anche al nuovo clima avviato col Gect (Gruppo europeo di cooperazione territoriale) le autorità di Gorizia e di Nova Gorica sembrano essersi rese conto che occorre superare una cosa da sempre sotto gli occhi di tutti: non ci sono a Gorizia cartelli stradali che indichino Nova Gorica, non ci sono cartelli stradali a Nova Gorica che indichino Gorizia. È vero che sono rimaste le indicazioni internazionali: di qua «Italia», di là «Slovenia». Il riconoscimento reciproco dell’una e dell’altro pezzo di un centro urbano che nelle foto aeree appare unico, però, non c’è mai stato. Ulteriore conferma di come italiani e sloveni abbiano cominciato da poco a porsi davvero il problema di ricomporre una frattura un tempo quasi inesistente.

La Gorizia millenaria, è vero, ha sempre avuto una cultura e una lingua a maggioranza italiane. Lo spiegava nel 1848, al di là dei censimenti che riconoscevano come italiani larghissima parte degli abitanti, il grande linguista Graziadio Isaia Ascoli, uno dei tanti ebrei protagonisti della nostra stagione risorgimentale: «Questo popolo è attaccatissimo per suolo all’Italia, se anche dalla Slavia non lungi, ed è, ciocché tronca in un paese di confine la questione, di lingua italiano, di costumanze in grandissima parte italiano, e dunque indubitabilmente italiano per nazione». Lo ribadiva l’intellettuale Giovanni Raismondo: «Si faccia e si scriva ciò che vuolsi, ma Gorizia è città italiana. Italiano il suolo, italiano il cielo, italiani gli usi ed italiana lingua». Lo riconoscevano implicitamente, del resto, anche quanti canticchiavano a metà ’800 alcune celebri strofette filo- asburgiche: «Italiana la nostra favella /ma coi slavi e germani viviamo / siamo fratelli, per l’Austria giuriamo / di far grande la nostra città».

Ciò non toglie, tuttavia, che il contado era in larga maggioranza slavo. E che di cognome slavo furono alcuni dei cittadini goriziani più illustri. Come Edi e Pepi Rusjan, pionieri del volo. O il filosofo Carlo Michelstaedter. O altri ancora il cui ricordo è ignorato dai nazionalisti italiani con la stessa ottusità che spingeva i nazionalisti slavi a croatizzare Marko Polo o a descrivere nei depliant i Leoni di San Marco di Spalato come «leoni post-illirici». Una frattura non ancora ricomposta. Anzi.

Intendiamoci: i rapporti tra i sindaci di Gorizia Ettore Romoli e di Nova Gorica Mirko Brulc, giurano, sono ottimi. Anche se l’italiano è un berlusconiano e lo sloveno un socialdemocratico si affannano entrambi a dichiarare in ogni occasione la volontà di collaborare. Del resto, direbbe se sbarcasse qui il famoso marziano di Ennio Flaiano, che senso c’è in una città sdoppiata di 35 e 33 mila abitanti che per un millennio è stata unita ad avere due ospedali e due università e due stazioni ferroviarie e così via?
Dietro la facciata, però…

Di là, dalla parte degli sloveni, resiste la voglia di dimostrare che possono farcela benissimo da soli senza il vecchio capoluogo. Anzi, che sono loro a rappresentare oggi la modernità. Ed ecco il grattacielo in costruzione che svetterà più alto di ogni cosa e metterà in secondo piano gli orrendi edifici del comunismo balcanico. L’Ateneo pieno di docenti stranieri. Una gioventù poliglotta. Le piste ciclabili. I grandi ospiti internazionali che animano le serate speciali dei casinò, che ormai sono una dozzina. La banda larga ovunque con l’accesso free perfino per i ricoverati all’ospedale di San Pietro, dove per primi hanno avuto l’Emodinamica che i «cugini» di qua aspettavano da tanto. E perfino il primo ipermercato, che ha un nome bruttissimo («Qlandia») ma ha spazzato via una volta per tutte il ricordo della domenica delle scope. Quella che nel 1950 vide gli sloveni, a causa della notizia falsa di un’apertura provvisoria delle frontiere, premere alla barriera della Casa Rossa fino a travolgere i poliziotti e irrompere nei negozi del capoluogo, dove facevano le spese da secoli, per comperare di tutto. A partire dalle scope di saggina.

Ma come: anche le spese adesso si fanno di là? E lo stupore dei goriziani, che negli ultimi anni si sono visti togliere la «zona franca» che consentiva loro di comprare anche il burro a prezzo più basso e hanno visto andarsene migliaia di militari che negli anni della guerra fredda occupavano la più alta concentrazione italiana di caserme e con i militari andarsene un pezzo dell’economia e chiudere tante pizzerie e chiudere tanti cinema, è gonfio di amarezza e di una sottile paura.

La millenaria Gorizia italiana «è una città meravigliosa e sfortunata dove il confine è cambiato sette volte in nemmeno un secolo», scrive nel suo bel libro «Niente da dichiarare» Roberto Covaz. Una città che «si ostina a considerarsi un aristocratico al quale certi riguardi sono dovuti in onore di un trapassato remoto che nessuno sa più coniugare, senza accorgersi che attorno il mondo cambia, corre, si adatta. Gorizia indossa un doppiopetto di taglio elegante ma ormai liso, per nascondere una camicia di seta con tanti rammendi che ha perso ormai l’originale fattura. Un signore severo che osserva scandalizzato la sbarazzina Nova Gorica, la voglia di modernità dei giovani sloveni che parlano tre lingue, il fiorire di iniziative, di centri commerciali, di cultura hi-tech, di punti Internet gratis, di servizi efficienti».

E cresce, insieme con i rimpianti per ciò che avrebbe potuto essere ma non è stato, la delusione verso Roma. Troppo contraddittoria verso questa città che proprio come scriveva Piazzesi o è così sacra da spingere i generali a mandare al massacro i soldati nella prima guerra mondiale coi carabinieri che sparavano a chi arretrava (la conquista di Gorizia, ricorda Edoardo Pittalis, rappresenta nel 1916 «la prima volta dal Risorgimento che l'esercito italiano infligge da solo in campo aperto una sconfitta secca al potente nemico ») o è secondaria. Periferica. Distante.

«E’ una decadenza non solo economica ma anche culturale» sospira il professor Silvano Cavazza, docente di storia a Trieste, «E’ decaduta ma continua ad avere un po’ la puzza sotto il naso. Io mi considero un uomo di destra ma per leggere qualcosa di buono prodotto a Gorizia devo ormai rifugiarmi in “Isonzo Soca”, la rivista bilingue dei comunisti…»

La crisi, a dispetto dei sogni sul «Corridoio europeo numero 5», morde. Tramontati gli stabilimenti tessili pionieri di una industrializzazione rimasta incompiuta (si pensi che in pieno boom l’occupazione aumentò del 72% nel resto della regione e del 12% qui), ammaccate le poche realtà meccaniche, ormai residuale il meccano tessile… I 13.778 euro di depositi per abitante (tremila sotto la media nazionale) contro i 24.935 di Siena, i 35.032 di Milano o i 37.502 di Trieste dicono tutto. E il dato sarebbe ancora più pesante se non ci fossero Monfalcone e i suoi cantieri, che si vantano di produrre il 70% del Pil provinciale.

Di più: la metà della ricchezza provinciale verrebbe dalle navi da crociera della Fincantieri. La quale, rimasta l’ultima impresa manifatturiera ancora tutta nelle mani del Tesoro attraverso Fintecna, dopo essere sprofondata in una crisi gravissima e avere vivacchiato un paio di decenni con le commesse militari (tipo le le famose navi per Saddam Hussein) o i traghetti superveloci commissionati dalla Tirrenia e rimasti quasi sempre all’ancora perché costava troppo farli navigare, ha trovato la sua vocazione nelle navi da crociera.

Navi immense, delle quali è diventata il primo produttore mondiale, con una quota di mercato del 45%. In una ventina d’anni l’azienda ne ha fatte 54: la metà qui. Come per esempio la Grand Princess. Mostri alti come un grattacielo di 24 piani e motori di tale potenza da far fronte al fabbisogno energetico di una città di 70 mila abitanti. Per costruire un bestione simile, che pesa a vuoto come 110 Jumbo 747, serve una quantità di acciaio pari a tre volte quello impiegato per la Torre Eiffel, e 3.800 chilometri di cavi: sette volte la distanza fra Roma e Venezia.

Un affarone da 2 miliardi l’anno. Che dà lavoro solo a Monfalcone a 4.500 persone, fra i 1.800 dipendenti della Fincantieri e il suo indotto costituito da mezzo migliaio di imprese. E che da sempre attira l’attenzione dei politici come il miele le mosche. L’ultimo esempio? Quello di Francesco Belsito, un rampante quarantenne che di Fincantieri, per ragioni di tessera politica, ha avuto a gennaio la poltrona di vicepresidente. Fin qui, tutto «normale»: è la lottizzazione, baby. Solo che, un mese dopo, la Lega Nord l’ha fatto nominare anche sottosegretario alla Semplificazione normativa al posto del defunto Balocchi. La legge (berlusconiana!) sul conflitto di interessi è chiara: i membri del governo non possono «ricoprire cariche o uffici o svolgere altre funzioni comunque denominate ovvero esercitare compiti di gestione in società aventi fini di lucro o in attività di rilievo imprenditoriale». Bene: cinque mesi dopo, non si è ancora dimesso. Aspetta che gli spieghino come la legge va interpretata… Nel frattempo, si è imbullonato alle due poltrone. Deciso a resistere come resistettero i nostri fanti dell’inferno delle battaglie sull’Isonzo. Si sa com’è, i tempi cambiano…

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