Alla fine della Grande Guerra, il governo italiano chiese il rispetto del Trattato di Londra, firmato con Francia e Gran Bretagna nel 1915, che concedeva a Roma, in cambio dell’entrata in guerra a fianco degli Alleati, ampie ricompense territoriali: il Trentino, il Sud Tirolo fino al Brennero, la Venezia Giulia, l'Istria, una parte della Dalmazia con la città di Zara e alcune isole dell'Adriatico. Ma Roma trovò sulla sua strada il messianico presidente americano Wilson, strenuo difensore del principio di nazionalità. E trovò anche, sul confine orientale, un nuovo Stato, la Jugoslavia, che proprio in nome della nazionalità si opponeva soprattutto alla cessione dell’entroterra della Dalmazia, quasi tutto slavo. Il Corriere di Luigi Albertini sposò le tesi wilsoniane, ricordando che tutti i padri del Risorgimento, da Mazzini a Cavour, quando sognavano l’Italia unita entro confini naturali, mai avevano pensato alla Dalmazia. E prevedendo che, con l’insistenza sulla Dalmazia, si sarebbero poste le basi per nuovi lutti e dolori. Aveva ragione: dall’incapacità del governo di gestire il pasticcio, nacque il mito negativo della vittoria mutilata, una delle principali armi ideologiche del fascismo nascente. Il Corriere fu solo in questa battaglia. E i suoi avversari gli rimproverarono proprio di non rappresentare nessuno. Il 13 gennaio 1919, in un fondo dal titolo «Siamo isolati?», si legge la risposta a questi rimproveri: «Un grande giornale europeo non rappresenta che se stesso, non parla in nome d’altri che di se medesimo».
Paolo Rastelli