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Il ritorno a Pirano dal lager (Il Piccolo 28 nov)

LETTERE

Quando, nell’estate del 1944, fui internato in Germania, nel lager di Müllerose, avevo solo 17 anni. Pervaso da un moderato senso di ribellione verso la società di allora, ideali non ne avevo come quasi tutti i coetanei. Verso il fascismo sentivo repulsione; nel versante opposto una chiusura totale. Ritengo che già allora aveva intuito che una dittatura valeva l’altra. I ricordi dell’infanzia vicina erano dolci ma non gioiosi e su tutto sovrastava la figura di mia madre carissima.

Il viaggio di andata era durato tre giorni; erano bastati per farmi vedere le devastazioni che la guerra aveva portato nelle più belle città europee. Berlino poi, era ridotta a un cumulo enorme di macerie; tutti muti e tanti con le lacrime. Nel lager subito soffrii la fame e la sete pure, ma anche le percosse senza un perché, gratuite, alle quali però reagivo positivamente. In me non era subentrata rassegnazione ma volontà di vivere, di farcela. Istriani e triestini venimmo alloggiati nella stessa baracca e la sera, anche se stanchi e affamati, ci si consolava cantando le nostre canzoni più belle con contorno di copiose lacrime.

La disciplina era ferrea e contro i soprusi e le legnate, non c’erano molte difese. I giorni passavano lenti, ci si alzava all’alba e subito incolonnati verso la fabbrica a riparare camion provenienti dal fronte russo che inesorabilmente si avvicinava. La fabbrica sorgeva in mezzo a un bosco di pini altissimi e allora mi capitava di scorgere uno scoiattolo, mai visti prima, o far fuggire una lepre solitaria. Spesso mancava l’acqua ed eravamo costretti a lavarci con la neve e così fecero la comparsa i primi pidocchi con relative grattate a sangue e quelle «stomigose» di cimici che presero alloggio tra le tavole del soffitto da dove, la notte, si lasciavano cadere sopra noi dormienti. Il più giovane dei sorveglianti era un ragazzo serbo di 13 anni, poliglotta, imprevedibile, inaffidabile, che gridava come e più dei tedeschi e girava per il campo armato di una pistola Beretta al fianco. Imparai presto vari sotterfugi per procurarmi qualcosa da mettere sotto i denti. Era una lotta continua che non vincevo quasi mai, nemmeno per il Natale. La seconda festa, con Rino carissimo amico, partimmo per i dintorni alla ricerca. Dopo alcune fughe – ci avevano anche sparato – bussammo a una casa. Si affacciò una ragazzina bionda, bellissima è dir poco, e mendicammo un pezzo di pane (brot bitte). Rientrò in casa, lasciando la porta aperta – non lo scorderò mai – e ci diede due panini con prosciutto crudo. Stupefatti, quasi diffidenti, rientrammo in baracca dividendo quel ben di Dio. Pian piano il fronte russo si stava avvicinando, la notte la baracca tremava tra i bagliori delle cannonate. Con due amici riuscii a farmi trasferire a Nikolassee (Berlino) da dove, forti di un «auswais» rilasciatoci dalla direzione, cominciammo il cammino verso casa, a piedi.

Di giorno si camminava ai bordi di boschi o strade secondarie, accodandoci a colonne dei primi profughi, la sera avevamo bisogno di riposare e mangiare qualcosa e allora ci avvicinavamo ai luoghi abitati. Un mattino vedemmo alcuni bambini scavare una fossa nel giardino della loro scuola e seppellirvi una effige di Hitler e altri cimeli nazisti. Trovammo ospitalità pure presso militari della Wehrmacht, il fronte era vicino e, stanchissimi, ci sdraiammo sul pavimento di una loro baracca. Ore dopo fummo svegliati da cupi boati e ci trovammo soli. Era in corso una puntata di carri armati russi; rastrellate due lenzuola – che poi scambiammo con un pezzo di pane in Cecoslovacchia – riprendemmo il cammino. Appena fuori l’abitato ci fermarono militari tedeschi che ci accompagnarono nel cortile di una fattoria dove già si trovavano un centinaio di militari sorvegliati a vista da colleghi armati. Per la prima volta ebbi veramente paura, perché quelli erano disertori rastrellati nelle retrovie dal vicino fronte. Fummo interrogati da un tenente che ci credette e così proseguimmo con un Ausweis in più per una quindicina di giorni. La guerra intanto era finita quando finalmente giunsi nella diletta Pirano, ma qui la guerra finì dieci anni dopo.

Marino Trani

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